
Nel giro di pochi anni la Cina ha capovolto l’equilibrio globale dell’industria automobilistica, passando da imitatrice marginale a dominatrice dei mercati, sia interni che internazionali. Il sorpasso sul Giappone come primo esportatore mondiale di automobili non è che la punta dell’iceberg di un processo strategico che ha radici profonde, ben pianificate e ora difficilmente reversibili. Oggi, il Dragone si trova in una condizione quasi inattaccabile di potere industriale e tecnologico. Una traiettoria da cui è impossibile tornare indietro.
Tutto è cominciato quando, all’inizio degli anni Duemila, Pechino ha scelto consapevolmente di non rincorrere l’Occidente sul terreno dei motori termici. Troppo ampio il gap tecnologico. Troppo lunghi i tempi per colmarlo. L’idea vincente, proposta dal visionario ingegnere Wan Gang, è stata quella di saltare una generazione tecnologica puntando direttamente sull’elettrificazione.
A differenza dell’Europa, impantanata tra compromessi normativi e inerzia industriale, la Cina ha seguito una linea chiara, fondata su investimenti pubblici mirati, sostegni diretti all’acquisto e sviluppo capillare di una filiera nazionale dell’auto elettrica.
Oggi questa scommessa è diventata realtà industriale. La quota di auto elettrificate nel mercato interno ha superato il 40% e le aziende locali dominano la scena, con marchi come Byd, Nio e Xpeng capaci di sfidare i colossi globali su ogni segmento.

Non si tratta solo di quantità. La Cina ha imposto un nuovo paradigma tecnologico. Le sue Case non producono più solo automobili, ma anche piattaforme, software, architetture elettroniche e sistemi integrati pronti all’uso. Anche quando un’auto porta un badge europeo al suo interno può nascondere tecnologia progettata, sviluppata e costruita interamente in Cina.
Come la MG (marchio inglese di proprietà del Gruppo cinese Saic) e la Lotus le cui elettriche sono interamente sviluppate dal Gruppo Geely. Anche la prossima generazione di auto a corrente della Volkswagen dovrebbero utilizzare una piattaforma sviluppata dalla Xpeng, azienda con cui ha siglato una collaborazione tecnologica.
L’evoluzione più significativa riguarda il software, i sistemi di guida autonoma e le batterie, settori in cui la Cina è oggi leader globale. È su questo terreno che i costruttori europei hanno iniziato a rincorrere, firmando accordi con fornitori cinesi per ridurre tempi, costi e rischi della transizione elettrica.
Mentre l’Occidente si dibatte tra normative ambientali sempre più stringenti, mancanza di incentivi e crisi occupazionali, la Cina si espande. Ma non per scelta, bensì per necessità. Il mercato domestico è saturo, afflitto da una guerra dei prezzi senza precedenti e da una cronica sovrapproduzione. Questo ha spinto molte aziende a cercare sbocchi all’estero, alimentando un’espansione aggressiva in Europa, Medio Oriente e America Latina.
Marchi come Byd e Chery hanno già aperto stabilimenti in Ungheria, Spagna e Turchia. Altri li seguiranno. E lo faranno con una logica inedita: non come semplici esportatori, ma come costruttori locali con una filiera pronta da impiantare ovunque.
A rafforzare questo meccanismo c’è la crisi identitaria dell’industria occidentale. I brand storici europei, un tempo simbolo indiscusso di eccellenza, oggi faticano a mantenere il passo. Porsche, Audi e Mercedes, perdono terreno in Cina, a causa di una nuova generazione di modelli locali che offrono interni più digitali, esperienze utente più avanzate e prezzi molto più competitivi.
L’appeal del marchio in un mercato come quello di Pechino conta sempre meno. Lo ha dimostrato Audi che in Cina ha presentato un’auto elettrica senza brand. A fare la differenza è la capacità di offrire tecnologia aggiornata, connettività e servizi. E in questo, i cinesi sono diventati maestri.

Tutto questo accade mentre la Cina ha smesso di essere solo un produttore diventando anche uno sviluppatore e un fornitore di tecnologia globale. Marchi come CATL, leader mondiale nelle batterie, offrono oggi telai modulari “pronti all’uso” per startup, governi e case automobilistiche in cerca di scorciatoie produttive.
È un modello industriale che ribalta la logica tradizionale. Non si parte più dal design per poi costruire una piattaforma, ma si parte da una piattaforma standard per poi rivestirla con uno stile. È l’inizio di un nuovo ordine automobilistico, dove il valore non sta più nel badge sul cofano, ma nell’elettronica sottostante.

In questo contesto, l’Europa rischia di perdere più di una partita commerciale. Per il Vecchio Continente il rischio concreto è quello di perdere la propria autonomia industriale.
La prospettiva più pessimista vede le Case automobilistiche europee diventare semplici “acquirenti” di tecnologia anziché protagoniste. Semplici clienti di una filiera tecnologica sviluppata altrove. La sfida, quindi, non è solo economica, ma culturale.
Le case europee devono decidere se accettare l’inevitabile e adattarsi al modello cinese, oppure rilanciare con una strategia autonoma, credibile e coraggiosa. Ma il tempo stringe perché la Cina, che in Casa rischia concretamente di implodere, è già andata oltre.

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