
Italia, il “deserto dell’auto”: articolo in sintesi
Ormai non è più un mistero. Quando le aziende automobilistiche effettuano un “casting” dei Paesi europei su dove impiantare nuove fabbriche, l’Italia viene sistematicamente scartata. O, peggio, non viene nemmeno presa in considerazione. I motivi sono diversi e attingono a fattori politici, economici e fiscali. Cerchiamo di analizzarli brevemente per capire perché effettivamente nessuna azienda automobilistica, compresa la stessa Stellantis che ha Torino come sua “capitale”, non investe nello Stivale.
L’attuale transizione green, ma non solo, ha consentito a diversi Paesi che in passato erano marginali di ricoprire dei ruoli di assoluti protagonisti. La Slovacchia, Paese che negli ultimi anni grazie a un favorevole rapporto costi/benefici fiscali, è diventata una vera e propria Capitale dell’auto di lusso europea. Il Gruppo Volkswagen l’ha scelto per assemblare modelli cruciali appartenenti a marchi di lusso e premium come Porsche e Audi.
Al Gruppo tedesco si è aggiunta anche la Kia che, grazie a un investimento da oltre 100 milioni di euro, assemblerà la sua nuova elettrica EV2 nell’impianto di Zilina, dalle cui linee esce già la EV4.

L’ultima notizia in ordine di tempo riguarda l’EV compatta Volkswagen ID.1, la quale, grazie a un sostegno economico del Governo locale, verrà assemblata a sud del Portogallo, nell’impianto di Palmela (stabilimento aperto alla metà degli anni Novanta dalla società tedesca).

La produzione automobilistica in Italia negli ultimi anni è crollata in modo verticale. Un tonfo che nel 2025 diventerà ancora più marcato. Nel primo semestre del 2025 secondo il report diffuso da FIM-CISL, è stato registrato un calo del 26,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un totale di 221.885 tra auto e veicoli commerciali. Secondo le stime si prevede una chiusura d’anno intorno alle 440.000 unità totali, con circa 250.000 autovetture prodotte. Tanto per dare qualche numero dello sprofondo produttivo nostrano, nel 2017 venivano costruite oltre 1milioni di vetture; il 2025 si chiuderà con meno della metà.
A “tirare la carretta” dell’industria dell’auto nostrana ci pensa la sempreverde Fiat Panda, che da sola copre il 54% della produzione dell’auto in Italia.
La “Pandina” verrà assemblata fino al 2030, per essere poi sostituita da una nuova generazione ingegnerizzata sulla piattaforma STLA Small.

Ad aiutare la Fiat Panda ci penserà la nuova Fiat 500 ibrida. La produzione dovrebbe raggiungere 5.000 unità entro la fine del 2025 per arrivare a oltre 100.000 unità all’anno quando la salita produttiva sarà a regime. E proprio a Mirafiori è stato effettuato l’ultimo investimento da parte di Stellantis.

Grazie a investimenti strategici da parte di Renault e Stellantis, anche il Marocco ha superato l’Italia nella produzione di auto. Il Paese nord africano ha raggiunto una capacità produttiva di circa un milione di auto, doppiando l’Italia.
Nell’impianto Stellantis di Kenitra (QUI il nostro speciale), da dove escono la Peugeot 208 e i quadricicli elettrici Citroën Ami e Fiat Topolino, si è passati da 200 a 400mila vetture. E non è finita perché l’impianto ha ricevuto un investimento di 1,2 miliardi che ha come obiettivo quello di far crescere ulteriormente la capacità produttiva.

Uno dei principali motivi per cui non si investe più in Italia è di natura economica. Produrre auto in Italia costa troppo. Carlos Tavares, ex Ceo di Stellantis, lo aveva detto chiaramente: il costo dell’energia nel nostro Paese è circa il doppio rispetto a quello di altre nazioni europee come la Spagna, e questo rende difficile mantenere prezzi competitivi per veicoli destinati alla classe media.
A questa zavorra si aggiunge l’incertezza normativa. Gli incentivi auto, anziché essere una leva stabile di sviluppo, si sono trasformati in strumenti fragili e a tempo. Il Governo nel 2025 ha messo sul piatto 597 milioni di euro per l’acquisto di auto elettriche. Ma questa disposizione non può bastare.
Neppure il mercato interno aiuta. Le auto elettriche in Italia hanno una penetrazione minima, appena 4,9% nel 2025, contro il 15-20% di Francia, Germania e Regno Unito. Inoltre, il nostro parco circolante è il più vecchio d’Europa: 12,6 anni di età media. Un contesto che sicuramente non stimola nuovi investimenti industriali.

Infine, ma non di certo per ordine di importanza, c’è il costo del lavoro. In Italia da un lato i dipendenti si trovano con uno dei netti più bassi in busta (a parità di lordi), dall’altro le imprese pagano tra i costi più alti. La politica dovrebbe ridisegnare il rapporto tra netto e costo aziendale.
Questo contesto, unitamente alla quasi totale assenza di sgravi e incentivi fiscali, ha fatto sì che il nostro Paese negli ultimi anni sia diventato sempre più marginale.
L’Italia oggi paga un mix micidiale di alti costi, scarsa visione politica e un mercato interno debole. Per tornare attrattiva servirebbe un piano industriale serio e di lungo respiro, capace di rilanciare la filiera e ridare fiducia agli investitori.
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