
Testo di Mattia Eccheli
Linea dura, anzi durissima. Il marchio Volkswagen deve ridurre i costi, soprattutto in Germania. Il gruppo deve limarli a livello globale. E la polemica infuria. Da una parte il Ceo Oliver Blume, quello quasi “acclamato” alla sua nomina perché uomo del dialogo, la dirigenza e la proprietà. Dall’altra i sindacati e i lavoratori. La classe politica dovrà mediare e quasi certamente intervenire a tutela dell’occupazione, i socialdemocratici (SPD) in particolare.
In particolare quelli della Bassa Sassonia, Land che con il 20,2% dei diritti di voto ha un potere di veto. In Germania, il marchio Volkswagen deve risparmiare 10 miliardi di costi fissi (entro il 2026, era stato annunciato a fine 2023, per raggiungere una redditività del 6,5%). Da qui la decisione di disdire il contratto aziendale che garantiva i posti di lavoro fino almeno al 2029 e l’intenzione di chiudere uno, se non due stabilimenti.
I toni restano accessi e sul fronte industriale non ci sono tentennamenti. I vertici sono già stati pesantemente criticati. Del resto è difficile spiegare come nel giro di pochi mesi si possa passare dalla distribuzione di 4,5 miliardi di euro di dividendi agli azionisti del gruppo (circa 2 alle famiglie Piech e Porsche che lo controllano) alla soppressione di impianti e di 15.000 posti di lavoro.
Contro lo scoglio della riorganizzazione era già andato a schiantarsi l’ex Ceo Herbert Diess, ma il peggioramento della congiuntura – questa la linea dei vertici aziendali – impone scelte impopolari. Anche perché la marginalità del marchio è stata di appena il 2,3% nel primo semestre del 2024. Le indiscrezioni danno a rischio due dei tre stabilimenti della ex DDR, quello di Dresda (400 dipendenti), la famosa Gläserne Manufaktur (la fabbrica trasparente), simbolo del “gigantismo” del gruppo. In 20 anni ha sfornato più di 150.000 macchine, tra le quali l’ammiraglia Phaeton e la Bentley Flying Spur: appena 6.500 nel 2022.
L’altro è Chemnitz (1.800 occupati). All’ovest è finito sotto la lente di ingrandimento il sito di Osnabrück, proprio nella Bassa Sassonia. Conta meno di 2.400 addetti e ha una potenzialità di 100.000 veicoli, ma lo scorso anno dalle sue linee sono uscite 28.000 auto. Era stato rilevato nel 2009 su pressione dell’allora presidente del Land, il cristiano democratico Christian Wulff, poi diventato anche presidente della Repubblica. Carica dalla quale si era poi dimesso per via di ipotesi di corruzione, salvo venire poi prosciolto da ogni accusa.
Si tratta di cifre con le quali i siti sono difficili da “salvare” e il vero interrogativo è come mai abbiamo potuto resistere fino a questo momento. Nemmeno a Salzgitter (7.500), in Bassa Sassonia, dove una volta si assemblavano motori a gasolio e la cui conversione all’elettrificazione non è ancora stata completata, si dormono sonni tranquilli.
Il marchio Volkswagen, che in Germania vale 120.000 posti di lavoro, non è il solo sotto pressione. In Europa è a rischio la fabbrica Audi di Bruxelles (3.000 addetti), la cui storia è travagliata, ma questo è un argomento che interessa meno nel paese. Al contrario, negli Stati Uniti il colosso tedesco intende continuare ad investire. Il piano è quello di spendere 2 miliardi di dollari nella Carolina del Sud per la costruzione di un sito destinato all’assemblaggio di un pick-up elettrico a marchio Scout.
Il primo modello dovrebbe venire esibito a breve mentre l’avvio della produzione è stimato per il 2026. Sul fronte tedesco sono previste trattative durissime per il rinnovo del contratto. L’azienda ha messo sul tavolo le peggiori opzioni, mentre il sindacato IG Metall e i Consigli di Fabbrica (i cui rappresentanti siedono nel Consiglio di Sorveglianza del gruppo) hanno già minacciato scioperi.
La politica non può stare alla finestra. Non solo perché il Land della Bassa Sassonia ha voce in capitolo nel CdS, ma perché l’impatto sociale di eventuali chiusure e licenziamenti rischia di avere ripercussioni pesantissime. Anche se Blume ha escluso quelli di massa, solo in teoria possibili dalla metà dell’anno prossimo: scatteranno incentivi all’esodo, prepensionamenti e ammortizzatori di vario genere. E il 28 settembre del prossimo anno si vota per il rinnovo del Bundestag, il parlamento tedesco. Un accordo è nell’interesse di tutti: ognuno vorrà spacciare il risultato finale per un “compromesso verso l’alto”.
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