
Il dieselgate risale al 18 Settembre 2015. L’EPA (Environmental Protection Agency) degli Stati Uniti rende noto che il Gruppo Volkswagen ha installato un “defeat device” su circa mezzo milione di veicoli diesel venduti negli USA. Si tratta di un dispositivo estraneo e non dichiarato in grado di riconoscere i cicli di omologazione e ridurre le emissioni solo durante i test, eludendo così i limiti previsti dalla normativa americana.
Lo scandalo, noto come dieselgate, esplode rapidamente, travolgendo il colosso tedesco e facendo emergere una realtà inquietante: milioni di veicoli venduti in tutto il mondo sono coinvolti. Le ripercussioni sono immediate: crollo in Borsa, azioni legali e indagini penali in più Paesi. Ma soprattutto, una perdita di credibilità senza precedenti per Volkswagen e, di riflesso, per l’intera industria automobilistica europea.

Di fronte alla più grave crisi della sua storia, Volkswagen decide di reagire con una strategia chiara: investire sull’elettrico. Nel summit di Wolfsburg del 10 ottobre 2015, i vertici dell’azienda pongono le basi di un cambiamento radicale. Viene lanciata la piattaforma MEB (Modular Electric Toolkit), si pianificano investimenti per 80 miliardi di dollari e si avvia la transizione verso la mobilità elettrica, con l’obiettivo di cessare la produzione di massa di motori endotermici entro il 2026.
La svolta è epocale. La nuova generazione di veicoli, inaugurata con la Volkswagen ID.3, segna l’inizio di un percorso che secondo gli analisti UBS porterà il Gruppo tedesco a diventare il primo costruttore mondiale di auto elettriche.

Lo scandalo ha un impatto finanziario devastante sulle casse del colosso tedesco: oltre 30 miliardi di euro tra multe, risarcimenti e costi legati agli aggiornamenti software. In Germania, una class action ha portato a un accordo da 830 milioni di euro con circa 260mila clienti. Negli Stati Uniti, le cifre sono ancora più elevate: solo la maxicausa collettiva americana comporta un esborso di 25 miliardi di dollari.
Anche sul fronte penale, la vicenda tocca da vicino tutti gli apicali. La procura di Braunschweig cita in giudizio i Ceo Martin Winterkorn e Herbert Diess, oltre al Presidente del consiglio di sorveglianza Dieter Poetsch per manipolazione del mercato, accusandoli di aver informato troppo tardi gli investitori.

Il diesel, da pilastro dell’Automotive europeo, diventa il capro espiatorio. Le vendite calano drasticamente, i Comuni iniziano a bandire i motori diesel più vecchi, e le autorità europee introducono cicli di omologazione più severi. In molti casi, il diesel viene condannato senza distinguere tra i modelli realmente inquinanti e quelli conformi alle normative.
Anche altri costruttori finiscono sotto la lente. FCA viene accusata prima dal governo tedesco, poi dall’EPA, di aver utilizzato l’AECD (Auxiliary Emission Control Devices) non dichiarati su modelli Jeep e Ram. Ma le accuse, pur se gravi, non portano a condanne definitive, e l’azienda respinge fermamente ogni collegamento con il caso Volkswagen.

A seguito dello scandalo, l’Unione Europea avvia una profonda revisione delle normative in materia di omologazione e controlli sulle emissioni. Il ciclo di test NEDC (New European Driving Cycle), giudicato poco realistico, viene progressivamente sostituito dal più severo WLTP (Worldwide Harmonized Light Vehicles Test Procedure), introdotto nel 2017. A questo si affianca il test RDE (Real Driving Emissions), che misura gli inquinanti su strada in condizioni reali di guida.
Parallelamente, l’UE rafforza il ruolo dell’Agenzia europea per i veicoli a motore, introducendo controlli a campione post-vendita e dando agli Stati membri maggiori poteri sanzionatori. I nuovi standard Euro 6d e, prossimamente, Euro 7, impongono limiti sempre più stringenti alle emissioni di NOx e particolato.
Infine, a dicembre 2018, il Parlamento e il Consiglio europeo raggiungono un accordo per tagliare le emissioni medie di CO2 delle auto del 37,5% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2021. Il frutto concreto del nuovo orientamento europeo si chiama Green deal e arriva nel 2019. Stabilisce obiettivi ambiziosi, che di fatto rendono inevitabile l’accelerazione verso l’elettrico e spingono i costruttori ad abbandonare progressivamente il motore diesel. L’obiettivo generale è quello di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050.

Il dieselgate ha impresso un’accelerazione drammatica alla transizione energetica del settore Automotive. Tutti i marchi del Gruppo Volkswagen, ma anche Mercedes e Bmw, hanno lanciato piani di elettrificazione imponenti, in parte per ragioni di marketing, in parte per conformarsi alle nuove normative sulle emissioni.
La nascita di joint venture come Ionity per lo sviluppo della rete di ricarica, l’espansione produttiva in Cina, le collaborazioni con startup tech, come quella con Xpeng. Tutto ciò fa parte di una strategia che mira a restituire fiducia nel marchio tedesco e rispondere alle esigenze di un mercato radicalmente cambiato.
Il dieselgate ha rappresentato uno spartiacque. Ha rivelato le fragilità di un sistema industriale che aveva fatto del diesel un feticcio tecnologico, e ha costretto l’intera filiera a rivedere le proprie priorità. Il Gruppo Volkswagen ne è uscito rivoluzionato: più trasparente, elettrico e più sostenibile. Ma anche con le casse molto più svuotate.
Tuttavia, il dibattito resta tutt’oggi aperto: è giusto criminalizzare un’intera tecnologia per colpa di chi ha barato? Di fatto oggi il diesel, che per chi percorre tanti chilometri in autostrada resta ancora la tecnologia più conveniente in termini di costi di gestione, è praticamente scomparso in Europa. Dati Acea alla mano, la quota di mercato di auto diesel nei primi sette mesi del 2025 è del 9,5%.
E siamo davvero pronti a un futuro totalmente elettrico, anche senza una domanda di mercato sufficiente? Domande che, a quasi dieci anni dallo scandalo, restano più attuali che mai.
Alcune risposte le hanno date le stesse Case automobilistiche europee, le quali, dopo aver insistito per una netta transizione verso le auto a corrente, si sono rese conto che non era la strategia giusta. Il mercato si è rivelato non troppo reattivo verso le auto a corrente. Lo stesso Mario Draghi, ex presidente della Bce, è entrato in tackle sui target del 2035 con il divieto di vendita delle auto a motore endotermico, sostenendo che quegli obiettivi “si basano su presupposti che non sono più validi”.

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