
Testo di Marco Visani, fotografie Alberto Novelli
Innocenti Mini Cooper 1300 Export. Erano gli anni in cui un Export non si negava a nessuno. Parola straniera quanto bastava a fare esotico. E facile il necessario per essere capita anche a chi di inglese masticava tutt’al più la zuppa. E, soprattutto, jolly. Perché Export poteva voler dire tutto e il suo contrario. In casa Innocenti ebbe un significato molto meno banale che altrove.

Il 6 maggio 1972, un anno dopo avere cessato la produzione della Lambretta e appena una settimana dopo aver ceduto all’Iri la divisione Meccanica che si occupava di macchinari industriali, Luigi Innocenti completa la dismissione dell’azienda di famiglia vendendo agli inglesi della Blmc la divisione auto. In pratica, dopo dodici anni in cui hanno costruito su licenza in Italia attraverso l’azienda di Lambrate, gli inglesi ne sono diventati i padroni sotto le insegne (che compaiono infatti anche sui cofani delle auto) della Leyland Innocenti.
Letta in tempi di Brexit, fa quasi sorridere, ma per gli inglesi l’acquisizione è una testa di ponte strategica. Si configura infatti come un avamposto nel Mec, il Mercato Europeo Comune, nel quale il Regno Unito non è ancora compreso (lo sarà solo l’anno dopo). Il lancio, nel marzo 1973, della serie Export della Mini – unico modello rimasto in gamma dopo la fine della J5 e prima dell’arrivo della meteora Regent – rivela l’intenzione dell’azienda di aprirsi ai mercati internazionali, esportando le vetture montate in Italia anche in Svizzera e nei mercati del Mec. Non era mai successo prima, ed entro la fine del 1974 le Mini Export arriveranno a rappresentare il 35% della produzione.

Faccende societarie a parte, la serie trasversale Export, che si affianca alla gamma standard di cui rappresenta un leggero upgrade, è sviluppata sulla base delle tre Mini 1000, 1001 e Cooper ed è molto simile ai modelli già apparsi a marzo 1972, che tra le altre cose avevano rinunciato alle sospensioni Hydrolastic per più convenzionali ammortizzatori idraulici e coni in gomma.

Oltre alle scritte di identificazione, sulla Cooper Export ci sono alcuni affinamenti meccanici, come i leveraggi del cambio semplificati e resi più diretti ed efficaci (con tanto di innesto della retromarcia che ora avviene alzando la leva), il doppio circuito, la spia del freno a mano, l’aggiunta di bloccasterzo, maniglie posteriori di appiglio, avvisatore acustico a tromba elettrica, nuovi pulsanti sulla plancia e parasole destro con specchietto di cortesia.
Altre peculiarità meccaniche erano già arrivate nel 1972 e fanno comunque la differenza tra la Cooper 1300 italiana e le altre Mini con motore di un litro: alternatore al posto della dinamo, serbatoio portato da 25 a 36 litri, vaso di espansione sul circuito di raffreddamento, fari allo iodio, aggiunta del radiatore olio. Sarà, la Cooper Export, l’ultima variante Innocenti sulla base delle Mini cosiddette “tonde”. O quasi.

L’ultima in assoluto, esposta al Salone di Torino di novembre 1974 dopo che già era stata presentata alla stampa la 90/120, è infatti la serie speciale equipaggiata con codolini neri sui passaruota. Ci sono poi tetto apribile in tela, paraurti neri opachi, selleria in panno, vetri atermici e tetto apribile. Una final edition realizzata in soli 300 esemplari, che accompagna la Mini classica verso la fine del suo ciclo italiano, che si chiuderà nella primavera 1975.
La vettura che abbiamo scelto di raccontare appartiene a un 63enne collezionista romano, Mauro Torzilli. Un ingegnere con il pallino dell’Innocenti nel cui garage ci sono pure una Mini Minor leva lunga del 1966, una Mini 90 e una 120, entrambe del 1980. E una 990 del 1986 (oltre a una Rover Mini Cooper del 1996 e ad altre vetture fuori dal contesto Mini & Co.). Immatricolata il 29 settembre 1973, è sua dal 2011. L’ha scelta – e rinfrescata di carrozzeria – perché quand’era ragazzo la madre guidava una Mini Cooper 1300 beige con il tetto nero.
“Volevo a tutti costi una pre-Export come quella della mamma, ma quando ho visto questa, nella sua impareggiabile nuance bluette con il tetto bianco non ho saputo resistere. E poi la Mini stava agli anni 70 come la Smart ai primi Duemila: era la piccola più diffusa a Roma”. Ci sono macchine che si fanno guidare. E altre che ti guidano loro: ti danno il la e tu, ben contento, suoni il loro spartito. È quello che succede sulla Mini Cooper Export.
Tanto per iniziare, è moderna nell’approccio alla gestione dello spazio interno. Non esiste un’altra auto anni 70 (progettata però a metà dei 50) in cui entri e sai subito dove riporre telefono, portafoglio, chiavi di casa e tutto il resto. È piccola, certo, ha un volante in una posizione scomodissima (molto orizzontale, cioè) eppure, a sedile tutto indietro, una persona sotto il metro e 80 fatica ad arrivare ai pedali. E la percezione degli ingombri, con quel musetto corto e la codina dritta, è perfetta. Il meglio arriva mettendo in moto e prendendo la strada. Noi l’abbiamo recuperata in centro: in città, figurarsi, è agilissima.

Però senti che è sprecata. La dea bendata ci ha messo a disposizione un’infilata di curve e tornanti subito sopra il lago di Bolsena. E lì, apriti cielo. O anche solo apri il gas: il motore, che pure è un modesto aste e bilancieri tutto in ghisa, è tonico, non difetta di coppia evitando di smanettare più del necessario con le marce. Prende i giri che è un piacere. E 71 cavalli su appena 670 chili sono parecchi. Il cambio lo asseconda correttamente. La leva ha innesti un po’ distanti (la quarta, per dire è parecchio a destra) e con un’escursione lunga e quindi poco sportiva.

Ma ci si fa la mano. Come ci si abitua a inserire la retro sollevando l’asta (l’esatto contrario della posizione che aveva su molte piccole Fiat). Il vero pezzo di bravura è la tenuta. Merito di un assetto molto controllato (detto meno diplomaticamente, è dura come un sasso), delle ruotine da dieci pollici con gomme non strettissime (delle 145) e di una distribuzione dei pesi ottimale. Anche perché il radiatore spostato su un lato limita la concentrazione delle masse in senso longitudinale. Mentre il serbatoio sul fianco destro (idea viceversa non brillante ai fini della sicurezza) bilancia parzialmente, quand’è pieno, il peso del guidatore.

Fatto sta che anche se sei uno tranquillo, sulla Cooper smetti di esserlo. Un motorino agitato, un kart feeling accentuato, una frenata molto più che decorosa (il servo c’è, ma la corsa del pedale rimane lunghetta) ti mettono voglia di darci dentro. Tanto dove la metti sta. Precisa, neutra, non smusa e non scoda. È un trenino sulle sue rotaie, più che un’automobile. Ha lo straordinario potere di trasformare una viuzza in una pista e uno che guida da rappresentante in un aspirante pilota, il tutto con la massima scioltezza. E ti fa scendere con un sorriso. Che fatica scendere, però.
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