Testo di Marco Visani, fotografie Thomas Maccabelli
Lamborghini Urraco. Un designer di grido (Marcello Gandini per Bertone), un progettista da urlo (Paolo Stanzani), un layout meccanico (il motore centrale, derivato dalle corse) che proprio la Lamborghini aveva imposto nella produzione di serie e che stava spopolando. Senza – guai! – trascurare i tori, come vuole la tradizione di una Casa che ne ha sbattuto uno (dalle intenzioni sicuramente poco pacifiche) nello stemma: Urraco, in spagnolo, identifica infatti una razza taurina. Tutto apparentemente perfetto.
Una macchina eccellente, che arrivò tuttavia in un momento pessimo. Anzi. Di momenti pessimi ne beccò due in un colpo solo. Il primo fu il passaggio di proprietà del costruttore di Sant’Agata, la cui maggioranza passò dal fondatore Ferruccio all’industriale svizzero Georges-Henri Rossetti, il che ritardò lo sviluppo dall’autunno 1970, quando la Urraco venne presentata al Salone di Torino, all’inizio del 1973, quando ne cominciò la produzione. Per di più, alla fine dello stesso anno scoppiò la crisi petrolifera seguita alla guerra del Kippur e, quantomeno nella percezione collettiva, qualunque vettura che anche solo si avvicinasse ai due litri divenne immorale.
Hai voglia a dire che questa fosse la “piccola” del marchio, fatto peraltro verissimo, visto che per la prima volta un motore Lamborghini scese da dodici a otto cilindri: la prima Urraco era pur sempre una due litri e mezzo, che per la congiuntura restavano sciaguratamente troppi. Così l’eccellente progetto ha solo “galleggiato” durante la sua epoca, senza mai affermarsi, e non ha certo dato vita a una di quelle auto alle quali oggi appiccichiamo l’impegnativo attributo di icona.
I numeri di produzione parlano di appena 795 esemplari in sette anni: pochi anche per una gt costruita da una piccola azienda che, in fondo, aveva iniziato a fare auto appena sette anni prima. Per dire: la ben più impegnativa Miura, in un arco temporale equivalente, sedusse quasi lo stesso numero di clienti (769).
Un’esistenza vissuta tra eccellenza e sfortuna merita rispetto, e chiede di essere riscoperta. Per indagare come si conviene le ragioni per cui tutt’oggi la Urraco è rubricata tra le Lamborghini “minori”, il che comporta persino qualche vantaggio. Non esiste infatti, nelle quotazioni correnti, un altro modello di Sant’Agata che costi meno. Un esemplare decoroso si scambia mediamente per 80 mila euro o poco più. Certo, non sono bruscolini, ma se pensate che per la sorella maggiore non si scende sotto il milione… In cambio avrete una vettura “non per tutti”, originale ai suoi tempi come oggi.
L’idea dell’ingegner Stanzani fu sì quella di democratizzare la raffinatezza tecnica, proponendo una vettura molto più abbordabile della Countach (che debuttò poco dopo e costava più del doppio, 19,5 milioni contro 9,6, ma soprattutto di creare una granturismo universale per guidatori normali.
Un’auto capace di toccare i 240 km/h, sulle autostrade di allora, come di girare in città in quinta a 1000 giri senza scomporsi, quando invece i V12 emiliani – mica solo quelli delle Lambo – se costretti a marciare in colonna o a bassa velocità, s’ingolfano che è una bellezza.
A sottolineare la sua vocazione versatile, o quantomeno la sua aspirazione “mista”, la Urraco è omologata per quattro. Certo, nel suo abitacolo c’era più ottimismo che spazio anche solo per poterla pensare, una cosa del genere: dietro ci stanno a malapena due bambini, e piccoli, solo per tragitti brevi. Eppure anche questo è un segnale della voglia di fare qualcosa di diverso, che si travasa peraltro su alcune soluzioni funzionali.
Visto che bisognava risparmiare centimetri in longitudinale, il volante è senza piantone. Con il mozzo, cioè, innestato direttamente sulla plancia e un profondissimo calice che provvede a porgere la corona al guidatore alla giusta distanza, in modo che non sia troppo vicino al parabrezza. Solo che così non c’è più posto per le levette di luci e tergicristalli, che infatti sbucano direttamente dalla plancia.
E siccome lo sterzo si infila là dove abitualmente ci sono gli strumenti di bordo, nella parte centrale si ritrovano gli indicatori secondari e le spie, mentre contagiri e tachimetro si spostano alle estremità. Per di più non sono frontali, ma angolati verso il guidatore, in modo da risultare meglio leggibili e protetti dall’irraggiamento solare. Insomma, tutto molto originale.
Ma la Urraco è anche una sportiva concreta: ha il condizionatore di serie (sulla S, nella normale è un optional) e un bagagliaio posteriore certo molto caldo, perché si trova dietro il motore e sopra le marmitte, ma più che decoroso (285 litri), considerando che si tratta di una coupé lunga appena 4,25 metri.
Nel pozzetto anteriore ci stanno solo la ruota di scorta e la trousse di attrezzi: un sacrificio inevitabile, considerando il profilo cab forward, cioè con abitacolo molto avanzato, il dash-to-axle (ovvero la distanza tra il mozzo ruota e l’attacco della plancia) veramente striminzito, e infine la presenza di un radiatore largo, basso e servito da due elettroventole sulla punta del musetto.
In realtà, la vettura deve gran parte della sua versatilità alla disposizione trasversale del motore centrale, ripresa pari pari dalla Miura: una soluzione ancora molto esclusiva all’inizio degli anni 70, che qui non si fa problemi a convivere con altri elementi viceversa assai meno sofisticati, dalle sospensioni McPherson sulle quattro ruote (soluzione rara in assoluto, e mai vista prima su una gt), alla scocca portante con sottotelaio posteriore (la stessa Miura si affidava a uno scatolato che era, di fatto, un telaio a piattaforma), fino al comando della distribuzione a cinghia dentata, mentre il V6 della Dino 246 – paragonabile per cilindrata – faceva ricorso a più tradizionali catene con tenditori.
Al debutto il V8 della Urraco P250 è un 2462 cm3 da 220 cavalli, ma per quella faccenda della crisi del 73 appare subito evidente che due litri e mezzo, pur poca cosa rispetto ai quattro della Countach, sono comunque troppi. Anche perché nel frattempo il fisco italiano si è pure inventato l’iva “pesante”, che rende particolarmente care, anche all’acquisto, le over 2000. È così che, solo per il mercato interno, nel 1974 debutta la variante P200, ridotta a 1994 cm3 e a 182 cv.
In contemporanea, per i clienti esteri che avvertono necessità diametralmente opposte, viene resa disponibile la P300, con motore a due alberi a camme in testa per bancata anziché uno solo, 2996 cm3 e 265 cavalli. Un’ulteriore variazione sul tema è la P111: stavolta la cifra non fa riferimento alla cilindrata, visto che si tratta di una P250 “dimagrita” a 180 cv e riservata agli Stati Uniti, dove una legislazione sempre più restrittiva in termini di emissioni imponeva una riduzione della potenza.
L’auto rimase in listino sino al 1979, affiancata a partire dal 1976 dalla Silhouette, che ne rappresentava la versione con carrozzeria targa, e quindi sostituita nel 1981 dalla Jalpa, che ne condivideva il layout meccanico.
Esteticamente le quattro varianti della Urraco, fatti salvi i paraurti maggiorati sull’americana P111, sono sostanzialmente uguali. E conservano tutte un dettaglio che all’epoca si fece notare: la curiosa veneziana sul lunotto. Un’idea molto anni 70, che venne ripresa poco dopo sulla Lancia Beta Hpe (però all’interno) e che sulla piccola Lamborghini faceva pendant con le due “orecchie” ugualmente in plastica scura, sistemate dietro il vetro laterale posteriore.
Ma l’esemplare che posa nelle foto, immatricolato per la prima volta il 3 settembre 1976, non monta alcuna alettatura posteriore: perché, a quanto è stato possibile ricostruire esaminando i registri di fabbrica, il primo proprietario richiese espressamente il vetro nudo e verticale e il cofano motore piatto.
Una soluzione che rende la coupé visivamente più bassa e ancora più slanciata, migliora in qualche modo la visibilità, specie in manovra, e ha anche un altro effetto: pur togliendo a tutto l’insieme un pizzico di personalità, paradossalmente nello stesso tempo gliene aggiunge, visto che una Urraco senza persiana è una primula rossa.
L’attuale proprietario si chiama Marcello Della Massara e, nonostante ciò che gli impone il suo mestiere (è un commerciante di automobili), è uno di quelli che le macchine preferisce acquistarle e tenerle per sé, piuttosto che venderle. Ha un debole per le italiane di razza, soprattutto Alfa Romeo (Giulia Spider, Duetto “coda tronca”, Montreal e 2600 Sprint), Maserati (Ghibli, Spyder, 3200 GT, Gransport) e Lamborghini (oltre a questa Urraco, nel suo garage c’è pure una bellissima Espada prima serie).
Tuttavia, non esclude dalle sue simpatie un pezzo meno pregiato eppure molto curioso: una Siata Spring, spider neo-retro di metà anni 60 su meccanica Fiat 850. E riguardo la protagonista di questo servizio racconta: “Negli anni 70 rimasi stregato quando, passeggiando per Milano, vidi nella vetrina di Achilli Motors questa Urraco senza la veneziana. Alcuni anni fa, dietro la segnalazione di un conoscente che mi parlò di una Lamborghini male in arnese, da salvare, appartenuta a un anziano ingegnere che non la guidava da anni, la andai a vedere. Con mia grande sorpresa, constatai che era la stessa che avevo incrociato con lo sguardo tanti anni addietro!”.
Oltre al lunotto “libero”, questa Urraco di colore grigio argento (il codice è P6937-0078) montava, come optional applicati in fabbrica e scelti dal primo cliente, il condizionatore d’aria e la leva cambio a selettore (normalmente era prevista una semplice cuffia). Marcello è particolarmente affezionato alla sua “piccola” di Sant’Agata, che ha anche portato lo scorso maggio a Trieste, in occasione del Concorso di Eleganza organizzato da Aci Storico: è li che ci siamo conosciuti.
Il fatto che sia la meno brillante della serie non lo spaventa: in fondo, avendone costruite appena 71 (contro 521 P250 e 203 P300), si rivela anche la più esclusiva. “È originale, agile, confortevole – soprattutto grazie al condizionatore – e divertente, giusto un po’ rumorosa nel traffico. Qualche estate fa non ho degnato di uno sguardo le altre mie vetture e l’ho usata quotidianamente, portando mia moglie a spasso sui Colli Berici. Credo che questo basti a far capire di che pasta è fatta”. Una Lamborghini per tutti i giorni: proprio come l’aveva immaginata l’ingegner Stanzani.
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