
Mentre si parla di auto a guida autonoma e smart mobility, la rete stradale europea resta strutturalmente fragile. Il nuovo report 2025 del European Transport Safety Council (ETSC) lo dice chiaramente: gran parte delle strade europee non è progettata per proteggere chi le percorre, soprattutto gli utenti vulnerabili. Le norme esistono, ma spesso non vengono applicate. Il risultato? Una rete discontinua, poco leggibile, con elementi strutturali che aumentano – anziché ridurre – il rischio.
Il report fotografa un’infrastruttura pensata con logiche ormai superate: poche separazioni fisiche, carreggiate sovradimensionate, incroci complessi, limiti incoerenti con il contesto e mancanza di continuità per ciclisti e pedoni.
In molte aree urbane:
Nelle strade extraurbane, i problemi riguardano soprattutto barriere di sicurezza insufficienti, curve strette senza visibilità, assenza di zone di fuga e mancata manutenzione.
La direttiva europea RISM (Road Infrastructure Safety Management) impone a tutti gli Stati membri di classificare le strade per livello di rischio, effettuare ispezioni regolari e garantire audit di sicurezza nei progetti nuovi o modificati. Tuttavia, l’implementazione reale è a macchia di leopardo.
Molti Paesi applicano le regole solo sulle strade principali, lasciando fuori interi tratti urbani, dove si concentra la maggior parte degli utenti vulnerabili. L’Italia, pur avendo recepito la direttiva, fatica a rendere sistematici gli audit e a classificare la rete urbana.
Tra tutti i Paesi europei, la Svezia è l’unica ad aver integrato sistematicamente i principi delle self-explaining roads (strada progettata per comunicare chiaramente all’utente la funzione, le regole e i comportamenti attese) e delle forgiving roads (strada pensata per limitare le conseguenze di un errore umano) nella progettazione ordinaria. Con il modello “Vision Zero”, introdotto fin dagli anni ’90, ha trasformato l’approccio infrastrutturale in uno strumento di prevenzione attiva.
A Stoccolma, gli attraversamenti pedonali sono rialzati e retroilluminati, le intersezioni ciclabili sono fisicamente separate dal traffico motorizzato, e i cordoli stradali sono progettati per forzare il rallentamento. Le corsie strette, i marciapiedi rialzati e le rotatorie a diametro ridotto obbligano a mantenere velocità basse senza bisogno di multe. Il risultato? Una riduzione costante delle lesioni gravi in ambito urbano e un tasso di mortalità tra i più bassi d’Europa.
Ma la Svezia è un’eccezione. Secondo l’ETSC, pochi altri Paesi adottano un approccio integrato tra pianificazione urbana, dati sanitari e progettazione stradale. Tra quelli che si distinguono positivamente ci sono:
All’opposto, il report segnala ritardi consistenti in Romania, Bulgaria, Lituania e alcuni Paesi dell’Europa sud-orientale, dove manca del tutto una classificazione delle strade per livello di rischio, e le ispezioni infrastrutturali sono rare o assenti. Il problema riguarda anche molte città dell’Europa occidentale, che non applicano la direttiva RISM sulle strade urbane, limitandosi alle grandi arterie.
E in Italia? Il quadro è frammentato. La direttiva europea RISM è stata recepita, ma non è applicata in modo sistematico, soprattutto nei contesti urbani. Alcune città – come Bologna, Milano o Firenze – hanno avviato interventi localizzati, realizzando corsie ciclabili protette, restringendo le carreggiate o implementando zone 30. Ma si tratta di episodi puntuali, non di una politica infrastrutturale nazionale.
Le piste ciclabili, spesso non protette e discontinue, finiscono nel nulla o si sovrappongono ai marciapiedi. I marciapiedi stessi sono stretti, interrotti da ostacoli, privi di rampe. L’assenza di standard omogenei fa sì che una città 30 sia affiancata da un comune senza segnaletica orizzontale visibile.
L’Italia, inoltre, non dispone di un sistema integrato tra dati sanitari e progettazione stradale, come quello svedese o olandese. Ciò impedisce una pianificazione basata su evidenze: le strade pericolose restano tali fino a quando non accade qualcosa.
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