
Testo di Fabio Madaro
Mentre l’estate 2025 registra picchi record di temperatura, incendi devastano la California e tempeste tropicali si moltiplicano lungo la costa atlantica, l’agenzia americana preposta alla protezione dell’ambiente si prepara a fare l’esatto opposto di quanto il suo nome suggerisce. L’EPA (Environmental Protection Agency), oggi guidata da Lee Zeldin su nomina del presidente Trump, ha avviato le procedure per revocare lo storico “endangerment finding”, ovvero il parere tecnico-legale con cui nel 2009 l’agenzia riconobbe ufficialmente che i gas serra costituiscono un pericolo concreto per la salute pubblica e il benessere umano.
Quel documento, firmato sotto l’amministrazione Obama, non è un semplice atto burocratico: è la pietra angolare della normativa climatica federale. Senza di esso, l’EPA non avrebbe alcun fondamento giuridico per imporre limiti alle emissioni di CO₂ da centrali elettriche, impianti industriali e veicoli. In altre parole, si tratterebbe di una bomba legale sotto l’intero sistema di contenimento delle emissioni climalteranti.
Il paradosso più inquietante è che la bozza, inviata alla Casa Bianca a fine giugno, non contesta la validità delle evidenze scientifiche. Gli estensori della proposta, infatti, scelgono una strategia più subdola: affermano che il Clean Air Act — la legge del 1970 che regola l’inquinamento atmosferico — non conferirebbe all’EPA un’autorità esplicita per trattare i gas serra come “inquinanti”, e quindi per normarne le emissioni.
Un semplice cavillo giuridico usato come grimaldello ideologico. Una scorciatoia retorica che ignora completamente i cambiamenti climatici visibili a chiunque. E che va contro le stesse pronunce della Corte Suprema americana, che con la storica sentenza Massachusetts contro EPA (2007) aveva stabilito che l’EPA ha non solo la facoltà, ma l’obbligo di valutare i rischi associati ai gas serra.
L’impatto di una revoca sarebbe potenzialmente devastante. Saltando l’endangerment finding, cadrebbero tutte le regolazioni esistenti sulle emissioni, incluse quelle applicate ai veicoli, alle centrali a carbone e agli standard di efficienza energetica. Un effetto domino che aprirebbe la strada a un ritorno al passato, proprio nel momento in cui il pianeta chiede soluzioni più rapide e incisive.
Non è un caso che numerosi esperti abbiano già bollato la proposta come “legalmente traballante e moralmente inaccettabile”. Secondo David Doniger del Natural Resources Defense Council (NRDC), si tratta di “un tentativo disperato e fondato su premesse che non reggerebbero nemmeno in un’aula di tribunale”. Anche l’ex direttore dell’EPA Gina McCarthy ha definito la proposta “una pericolosa negazione della realtà, dettata da interessi politici e lobbistici”.
È ormai chiaro che la nuova amministrazione statunitense ha un piano preciso: smantellare sistematicamente tutte le conquiste ambientali degli ultimi due decenni, dalle limitazioni alle trivellazioni petrolifere alle protezioni delle terre federali, fino appunto alle politiche sul clima. Un’agenda che non si preoccupa nemmeno più di negare il cambiamento climatico: semplicemente lo ignora, derubricandolo a questione secondaria o addirittura “ideologica”.
La revoca dell’endangerment finding si inserisce perfettamente in questa strategia. Non importa se il mondo scientifico, dai rapporti dell’IPCC all’American Medical Association, continua a lanciare allarmi inequivocabili. Per questa Casa Bianca, la scienza è diventata un ostacolo da aggirare, non una guida per le politiche pubbliche.
Va detto con chiarezza: la revoca non è ancora effettiva. La proposta è stata trasmessa all’Office of Management and Budget per la revisione interagenzia, dopodiché sarà pubblicata nel Registro federale per essere sottoposta a consultazione pubblica. Solo dopo (e non prima del 2026) potrebbe entrare in vigore — e a quel punto ci sarà quasi certamente una valanga di ricorsi in tribunale. Il processo, quindi, sarà lungo, complesso e probabilmente incerto. Ma il segnale politico è già forte e chiaro: l’amministrazione americana ha intenzione di abdicare dal proprio ruolo di guida nella lotta globale al cambiamento climatico.
Proprio mentre Washington tenta di archiviare vent’anni di progresso climatico, nel Vecchio Continente arriva una sentenza che segna una svolta epocale a livello internazionale. La Corte permanente di arbitrato dell’Aia, investita da alcuni Paesi vulnerabili agli effetti del riscaldamento globale, ha infatti stabilito che gli Stati che non rispettano gli obblighi ambientali e climatici possono essere ritenuti responsabili di danni e costretti a risarcire le popolazioni colpite. È la prima volta che il diritto internazionale riconosce in modo così netto la relazione tra inquinamento, responsabilità legale e obblighi di risarcimento. Un precedente destinato a pesare nei rapporti tra Stati, nei negoziati multilaterali e forse — chissà — anche in qualche aula di tribunale americana.
Mentre il mondo si muove verso una giustizia climatica globale, l’EPA guidata dall’amministrazione Trump sembra voler riportare indietro le lancette della storia. In nome della deregulation e del profitto a breve termine, si rischia di cancellare la consapevolezza scientifica e morale faticosamente costruita in due decenni. La buona notizia? Non tutto è perduto. La proposta deve ancora affrontare l’opinione pubblica, la burocrazia federale e — soprattutto — una comunità scientifica, civile e giuridica che non ha intenzione di restare in silenzio.
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