
Testo di Fabio Madaro
Il paradosso dei dazi americani si manifesta con sempre maggior chiarezza: le stesse misure doganali volute da Donald Trump per “difendere” l’industria automobilistica nazionale stanno colpendo duramente proprio le grandi case americane. I primi a pagarne il prezzo sono colossi come General Motors, Ford e Stellantis, che si trovano a fronteggiare miliardi di dollari in costi aggiuntivi e una competitività sempre più friabile.
E come si apprende da fonti autorevoli quali La Repubblica e Automotive News, la fotografia più recente arriva dai conti di General Motors, che ha chiuso il secondo trimestre del 2025 con un calo dell’utile netto del 35,4%, sceso a 1,9 miliardi di dollari, mentre il fatturato ha registrato una flessione dell’1,8%, attestandosi a 47,1 miliardi. Un risultato zavorrato soprattutto dall’impatto delle nuove tariffe doganali, che nel solo trimestre hanno inciso per 1,1 miliardi. Ma è il quadro annuale a far preoccupare: GM stima perdite legate ai dazi tra i 4 e i 5 miliardi di dollari.
E non si tratta di un caso isolato. Anche Ford prevede un impatto potenziale fino a 1,5 miliardi sul proprio utile operativo, mentre Stellantis, che produce tra Stati Uniti, Canada e Messico, ha quantificato l’effetto negativo in un range compreso tra 1 e 1,5 miliardi.
La logica della produzione automobilistica nordamericana è ormai quella di un ecosistema integrato: veicoli e componenti si muovono tra impianti collocati nei tre Paesi NAFTA (ora USMCA). Spesso un singolo veicolo viene assemblato in fasi distinte tra Messico, Stati Uniti e Canada. L’obiettivo dell’amministrazione Trump è chiaro: incentivare il rimpatrio delle fabbriche e dell’occupazione negli USA. Ma la realtà è che trasferire in tempi rapidi le attività produttive è complesso, costoso e rischioso.
Nel frattempo, le tariffe producono un effetto immediato: i costi salgono, i prezzi di listino aumentano e le vendite rallentano, mettendo a rischio preziose quote di mercato. Un danno che, secondo gli esperti del settore, potrebbe non essere più recuperabile.
General Motors prevede ora un utile operativo annuo compreso tra 10 e 12,5 miliardi, dopo aver registrato 6,5 miliardi nella prima metà del 2025. Ma l’azienda ha già messo in conto una seconda parte dell’anno più debole, complice l’impatto pieno dei dazi, l’aumento dei costi per i nuovi modelli e il fisiologico calo dei volumi dopo l’estate. Mary Barra, ceo di GM, ha confermato un piano di riorganizzazione interna e l’intenzione di investire 4 miliardi di dollari negli impianti statunitensi. Tuttavia, ha ribadito che il percorso di rilocalizzazione non sarà immediato, e che l’azienda continuerà ad affrontare criticità legate alle attuali catene di fornitura.

Le previsioni del Center for Automotive Research sono eloquenti: un dazio uniforme del 25% applicato a tutti i partner commerciali potrebbe comportare un aumento dei costi pari a 107,7 miliardi di dollari per l’intera industria automobilistica americana, con un impatto diretto di 41,9 miliardi sulle tre grandi di Detroit. L’esposizione ai dazi, però, non è uniforme. Ford e Tesla, che hanno una quota significativa di produzione all’interno degli USA, risultano meno vulnerabili. GM e Stellantis, invece, sono più esposte a causa della forte dipendenza da stabilimenti fuori dai confini americani.
Il piano protezionista della Casa Bianca, pensato per rafforzare la manifattura americana, sta mettendo in crisi proprio i suoi simboli industriali più forti. I dazi, almeno nel breve periodo, si stanno traducendo in perdite miliardarie, ritardi produttivi e una competitività in calo. Se la transizione produttiva non sarà rapida e coordinata, l’industria automobilistica americana rischia di pagare un prezzo troppo alto per un ritorno che, al momento, appare ancora incerto.
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