Se uno dei padri fondatori del design automobilistico scompare all’improvviso, ogni gesto che ruoti intorno all’urgenza di celebrazione pare velarsi di banalità. Ricomporre il mosaico delle sue creazioni, rintracciare quanti lo indichino come modello… eppure si tratta di un esercizio necessario come il respiro, quando le proporzioni della perdita appaiono così vaste.
Molti lo ricorderanno per capolavori di veemenza quali la Miura, che nel 1966 rifondò i paradigmi delle supercar e definì una nuova istantanea dell’eccellenza italiana, l’eterna Countach cui tutte le Lamborghini successive devono il calco, fino all’Alfa Romeo Montreal con quel linguaggio quasi industriale pur se profondamente legato al Biscione.
Ma Marcello Gandini ha rappresentato molto di più.
Attraverso le linee puntute della Mini 90 per Innocenti, ad esempio, ha instillato nel tessuto urbano una sintesi di razionalità e stile che solo per caratteristiche estrinseche, commerciali, non ha conosciuto la medesima fortuna internazionale della coetanea Golf (e in Italia, in ogni caso, resse con simpatia i rovesci del mercato per quasi vent’anni).
Presso Renault ha ridisegnato un’altra imperatrice dei gusti popolari, la R5, con profondità e pulizia degne del miglior minimal moderno: un lavoro per sottrazione e insieme potentissimo. Poi, sempre sotto le insegne della Régie, l’incredibile interno della Maxiturbo e la plancia seria ma modernissima della R25, o ancora la grossa porta scorrevole del furgone Master che trasferiva sul veicolo l’aura di robustezza delle attrezzature abitualmente impiegate dai futuri clienti.
Il fremito d’innovazione che animava Gandini si è dunque sempre declinato su più piani, nel pieno rispetto della concezione del design in quanto forma di comunicazione, come egli stesso ebbe a sostenere durante la cerimonia di assegnazione della laurea honoris causa recentemente conferitagli dal Politecnico di Torino: “[Attraverso le forme] una city car dirà: ‘Sono facile, amichevole […], rispetto i pedoni […], sono possibile, mi faccio benvolere’; una sportiva estrema, invece: ‘Sono aggressiva, potente, veloce e difficile ma riverbero il mio fascino su chi mi possiede’”.
Esattamente in tale versatilità di visione, pure propria di diversi progettisti, però di rado sviluppata con tanta perizia, potrebbe celarsi il segreto di Gandini. Oltre che, come da lui stesso riconosciuto, nella fortuna di aver vissuto un periodo di fervore irripetibile per la storia dell’automobile, con giganti come Nuccio Bertone capaci dell’audacia e dell’intelligenza di incoronare i talenti veri: il Nostro fu promosso capo dello stile a soli 26 anni.
Qualcuno, all’estero, sostiene anche che il Maestro rappresenti il massimo esponente del cosiddetto “wedge design”, le forme a cuneo che hanno caratterizzato una felice stagione di sperimentazione intorno agli anni 70. Forse in quell’ossessione per gli angoli e le lamiere piatte si svela la fascinazione verso “l’oggetto levigato, importante” che il Maestro ha sempre attribuito, con trasporto quasi immaginifico, all’automobile.
Di certo rimangono diverse sue definizioni geniali attribuite al proprio lavoro: nella lectio magistralis di qualche mese fa, come nell’intervista che l’automobileclassica ha avuto l’onore di rivolgergli la scorsa estate, il design è divenuto per esempio “la prima forma di pubblicità” di un veicolo. Non a caso alla fine degli anni 80 partecipò a uno spot televisivo Citroën in cui guidava una BX, derivata con meravigliosa fedeltà dal suo prototipo Bertone Tundra per Volvo, che partiva con nonchalance dallo stesso cortile in cui era parcheggiata una Countach.
Ecco: al di là di ogni racconto, di ogni nostalgia, a noi piace ricordare Marcello Gandini così, energico e creativo, alla guida di uno dei suoi suoi progetti. Oltre che dell’immaginario di tutti noi.
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