
Testo di Fabio Madaro
Per anni la Cina è stata il cuore pulsante della rivoluzione elettrica: qui sono nati decine di nuovi marchi, dalla Cina provengono le batterie che alimentano il 60% del mercato mondiale. Il tutto sviluppatosi in un sistema industriale capace di abbattere i costi come nessun altro. Ma oggi il baricentro si sposta. Secondo un’analisi del Rhodium Group (un apprezzato Istituto di Ricerca) riportata da Bloomberg, nel 2024 le aziende cinesi della mobilità elettrica hanno investito 16 miliardi di dollari all’estero, contro i 15 miliardi in patria. Un sorpasso simbolico e concreto insieme: mai prima d’ora i capitali cinesi destinati all’elettrico avevano guardato più all’estero che al proprio mercato interno.
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Anzi, al contrario molti analisti la leggono come un segnale forte di come evolverà il settore già nei prossimi 5 -7 anni: l’auto elettrica sarà sempre più globale, con fabbriche cinesi integrate nei mercati chiave di Europa, Americhe e Asia.
La prima spiegazione è relativamente semplice: la Cina sta rapidamente saturando il proprio mercato. La domanda, certo, è ancora in crescita ma a ritmi molto più contenuti, mentre la concorrenza tra decine di marchi ha generato una guerra dei prezzi che ha eroso i margini. BYD, Nio, Xpeng, Geely e molti altri si contendono consumatori sempre più esigenti, con nuovi modelli che si susseguono a breve distanza uno dall’altro, spesso accompagnati da campagne commerciali aggressive con consistenti ribassi dei prezzi.
Se questo è lo scenario, guardare all’estero diventa una necessità, non più un’opzione. L’obiettivo è perciò conquistare mercati in cui l’elettrico non è ancora mainstream, ma ha potenzialità enormi: dall’Europa (specie quella orientale) al Sud-est asiatico, fino all’America Latina.
Se il mercato interno spinge a uscire, il contesto internazionale rende inevitabile la delocalizzazione. Stati Uniti e, in parte, Unione Europea hanno alzato dazi e barriere commerciali, accusando la Cina di dumping e sussidi eccessivi.
Il risultato? Le aziende cinesi preferiscono costruire direttamente a casa nostra: in Ungheria è in arrivo un maxi impianto CATL, in Brasile e Messico nascono stabilimenti BYD, mentre l’Indonesia si candida a diventare hub per la produzione di batterie. In questo modo si aggirano i dazi e si risponde alle richieste dei governi locali di avere filiere produttive in loco.

Non è un caso che quasi tre quarti degli investimenti esteri (74%) riguardino le batterie. Per Pechino, la vera partita non è solo l’auto finita, ma il cuore tecnologico che la muove. Controllare la produzione di accumulatori significa avere in mano la leva strategica dell’intero settore, oggi e domani.
Accanto a questo, però, cresce anche il numero di progetti per l’assemblaggio completo dei veicoli. Un segnale chiaro: la Cina non vuole solo fornire componenti, ma radicarsi con marchi e modelli direttamente nei mercati di destinazione.
Il quadro, tuttavia, non è privo di ombre. I dati mostrano che solo il 25% dei progetti esteri viene portato a compimento, contro il 45% di quelli domestici. Non tutti i cantieri diventano stabilimenti operativi: ostacoli burocratici, resistenze politiche e difficoltà finanziarie possono rallentare o bloccare i programmi.
C’è poi una questione interna: lo stesso governo cinese teme che troppi investimenti all’estero possano “svuotare” il tessuto industriale nazionale, con rischi occupazionali e fuga di know-how.
Quella raccontata da Bloomberg non è quindi una mera notizia economica, ma un segnale preciso. Nei prossimi anni, l’industria dell’auto elettrica potrebbe cambiare volto: i marchi cinesi non saranno più soltanto esportatori, ma produttori integrati dentro i confini europei, americani e asiatici.
E se ciò accadrà le conseguenze saranno enormi. Da un lato, i consumatori avranno accesso a modelli più economici e competitivi. Dall’altro, i costruttori occidentali saranno costretti ad accelerare la propria transizione, pena la perdita irreversibile di quote di mercato.
Una “prima volta” che sancisce il passaggio dall’espansione domestica a una strategia globale, capace di ridisegnare gli equilibri dell’automotive.
Da tempo analisti e osservatori avvertivano che la proiezione industriale della Cina avrebbe potuto trasformarsi in una vera e propria colonizzazione economica dei mercati esteri. Quello che fino a ieri era soltanto un rischio ipotizzato, oggi assume i contorni della certezza: il sorpasso negli investimenti non è solo un dato statistico, ma la conferma che la presenza cinese nell’elettrico sarà destinata a radicarsi sempre più profondamente anche fuori dai propri confini.

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