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Fiat Dino, la ricerca della bellezza perfetta

di Redazione - 11/08/2023

Non c’è che dire: al primo impatto l’impressione è di avere a che fare con una creazione del Cavallino. Di proporzioni appena più contenute, certo, ma con caratteristiche inequivocabili. Come l’andamento sinuoso del muso e le doppie luci circolari posteriori che chi ne ha concepito la linea, di casa a Maranello, ha più o meno volutamente trasferito su questa agile e affascinante scoperta torinese.

E infatti la Fiat Dino è il frutto di un incrocio più unico che raro di emozioni, tecnica e opportunità, una combinazione di fatti che ha anche contribuito a scrivere un capitolo fondamentale dell’auto italiana, sportiva e non solo. Tutto nacque dal regolamento varato dalla Commissione Sportiva Internazionale che, nel 1967, impose che le monoposto di Formula 2 fossero equipaggiate con un motore derivato da vetture di serie prodotte in almeno 500 esemplari. Si trattava di una norma che poneva diversi problemi, specie a costruttori di piccole dimensioni che, come la Ferrari, progettavano l’auto nella sua interezza, dal motore al telaio, senza affidarsi a propulsori di altri fornitori, come accadeva invece per le scuderie d’Oltremanica, quelle che il Commendatore liquidava con lo sprezzante epiteto di “garagisti”, che utilizzavano in massa il Ford-Cosworth.

Propulsore cercasi

Per il Cavallino si trattava, quindi, di trovare un partner in grado di garantire una produzione di almeno 500 auto sportive da equipaggiare con il motore che sarebbe poi stato montato sulle monoposto. Scartata l’Alfa Romeo, per le conflittualità che avevano interrotto il rapporto con Ferrari e la sua scuderia quando si occupava della gestione delle auto da competizione del Portello, in Italia non rimaneva che la Fiat, una vera, grande e solida fabbrica di automobili…

Nel 1965 in realtà, c’erano già stati dei contatti tra le due aziende perché proprio da Torino venne avanzata la richiesta di progettare un motore di 1,6 litri ad alte prestazioni, ma la cosa non andò in porto anche se Ferrari era solleticato dall’idea di avere in gamma un modello di auto più agile e meno impegnativo, anche in termini di costo. La direttiva della Commissione Sportiva sembrava offrire un’opportunità in tal senso e l’accordo Fiat-Ferrari si fece. Protagonista assoluto fu ovviamente il motore, che le due aziende avrebbero utilizzato per equipaggiare modelli espressamente dedicati.

Nel nome del figlio

E qui entra in gioco la parte emozionale, perché la scelta del propulsore cadde sul V6 che Alfredo Ferrari, detto Dino, il figlio di Enzo appassionato di meccanica prematuramente scomparso nel 1956 a 24 anni, prediligeva. Nell’ultimo anno della sua sfortunata esistenza, costretto a letto da una malattia degenerativa, Dino intavolava lunghe discussioni tecniche con Vittorio Jano − grande progettista di motori in forza ad Alfa Romeo, prima, per approdare poi in Lancia e quindi in Ferrari − sull’efficienza di propulsori compatti, sostenendo l’equilibrio e le prestazioni del sei cilindri a V di 65 gradi. Un’intuizione geniale che Enzo Ferrari gli riconobbe subito l’anno successivo, chiamando “Dino” il motore delle monoposto di F2 impegnate nella stagione 1957 e poi, nel tempo, delle Formula Tasman e del prototipo 166P.

È da questi antefatti che, nel 1966, nasce la Fiat Dino Spider, prima auto di serie a montare, all’anteriore e in posizione longitudinale, il V6 di due litri progettato e prodotto dalla Ferrari con la sigla 135AS. Per lo stile la scelta cade su Pininfarina, che disegna un’affusolata due posti con panchetta posteriore di fortuna, quasi una 2+1, e caratteristiche formali destinate a segnare molte delle sue linee future: ampi parafanghi arrotondati ispirati alle sport-prototipo e coda tronca. Un impianto stilistico che il carrozziere torinese propone anche per la coeva Dino 206, prodotta da Ferrari dopo essere stata presentata al Salone dell’auto di Torino del 1967 e preceduta da un paio di prototipi battezzati sempre Dino: una specie di dinastia, quindi, che si sviluppa su due rami, uno radicato in Piemonte e l’altro in Emilia, accomunati dallo stesso cuore. Però, mentre la Fiat utilizza il nome Dino per identificare il modello, la Ferrari non userà il proprio marchio sulle Dino GT, creando di fatto un brand autonomo anche se prodotto nello stabilimento di Maranello. Sempre nel 1967, in casa Fiat nasce anche la coupé della Dino che, disegnata da Bertone su un telaio più lungo, ottiene da subito un maggiore successo di pubblico rispetto alla Spider.

Dalla singola auto alla partnership

Nata dalla collaborazione per la produzione del motore, la vicenda Fiat-Ferrari vive un punto di svolta nel 1969. Nell’estate di quell’anno, infatti, si sigla un accordo destinato a cambiare la storia della Ferrari e il suo futuro. L’incontro del 18 giugno tra Enzo Ferrari e Gianni Agnelli, all’ottavo piano della sede Fiat di corso Marconi, a Torino, sancisce il passaggio di proprietà del 50% della Ferrari alla Fiat con l’opzione, alla scomparsa del Commendatore, di estenderlo ad un altro 40%, lasciando al figlio Piero il restante 10%, oltre alla carica di vicepresidente. A Enzo Ferrari sarebbe comunque rimasta la gestione autonoma delle corse, che era il suo  vero obiettivo.

Dal punto di vista tecnico, dopo 3 anni e 4762 esemplari tra versione chiusa e aperta, proprio nel 1969 le Dino iniziano a montare la versione evoluta del V6 di Maranello: la cilindrata del motore con doppio albero a camme in testa e tre carburatori doppio corpo viene portata a 2418 cc e la potenza sale a 180 cv a 6600 giri/minuto. Esattamente il motore della Dino Spider di queste pagine: una seconda serie immediatamente riconoscibile, oltre che per la scritta posteriore che riporta la cilindrata, per le due barre cromate orizzontali che percorrono la mascherina anteriore. Questo esemplare − con telaio 1525 − è uno dei 184 costruiti nel 1971, segno di una produzione ormai calante, che si sarebbe conclusa l’anno successivo con ulteriori 21 esemplari per un totale di 424 Fiat Dino Spider 2.4.

Un piacere di guida senza età

La “1525” si presenta oggi nell’accattivante Blu Medio 489, colore scelto dall’attuale proprietario in occasione del profondo restauro al quale ha sottoposto l’auto nel 2014 in sostituzione dell’originale (e piuttosto raro) Giallo Colorado 241. La Spider è accogliente, con sedili sportivi ma ampi, e un posto guida che comprende tutti gli ingredienti tipici di una sportiva di razza degli anni 70: uso del legno per gli inserti su plancia, tunnel centrale, cruscotto, oltre che per la corona del volante a tre razze; cockpit con sei indicatori, due grandi per tachimetro e contagiri e quattro piccoli per manometro olio, temperature olio e acqua, livello carburante. Piacevole da guidare, con un assetto più da granturismo che da sportiva, la Dino Spider si concede ad avventure velocistiche anche sul misto stretto, a patto di non chiedere a telaio e sospensioni prestazioni troppo estreme. Mantiene il suo pezzo forte nel motore, che rivela le nobili origini con una progressione e un rombo che si fanno riconoscere all’istante. Anche se la produzione della Fiat Dino termina con la Coupé nel giugno del 1972 (qualche mese prima, a gennaio, quella della Spider), il V6 Dino continua a equipaggiare la 246 GTS “made in Maranello” fino al 1974. Senza dimenticare la Lancia Stratos, con la quale, nei rally, vince tre titoli mondiali e tre europei con gli ultimi trionfi nei rally di Montecarlo e Sanremo datati 1979. Ma questa è un’altra storia o, forse, sempre la stessa: erano anni di gloria.

Testo Alessandro Giudice – Foto Thomas Maccabelli

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