Testo di Marco Visani, fotografie Carlo Di Giusto
Ha un peso specifico di 2,7 kg per decimetro cubo, l’alluminio. L’acciaio arriva a 7,8. Bastano queste due cifre per capire perché, nella costruzione delle carrozzerie, l’alluminio abbia avuto un certo successo. “Un certo”, e non “un enorme” perché, a fronte di un risparmio – teorico – di quasi due terzi del peso, l’alluminio ha dovuto scontrarsi da sempre con numerosi problemi: costa di più, non è altrettanto agevolmente saldabile e se non è combinato in leghe con altri metalli non ha le necessarie capacità resistenziali essendo, per sua natura, tenero e potenzialmente fragile.
Anche “mescolato” con rame, magnesio e manganese (che sono, per esempio, gli ingredienti che compongono il duralluminio, brevettato nel 1909, inizialmente per scopi aeronautici) ha comunque una densità pari a metà di quella dell’acciaio, il che lo ha reso un ghiotto boccone per applicazioni automobilistiche. Di leghe di alluminio sono piene le automobili, anche per ragioni di smaltimento del calore (quasi quattro volte superiore all’acciaio): qui concentreremo però la nostra analisi sul loro impiego nel guscio esterno, trascurando volutamente motori, cambi e sospensioni, nei quali vantaggi e limiti di questo materiale sono diversi.
Agli albori della sua storia la carrozzeria di un’automobile era fatta di legno e acciaio: gli stessi materiali usati per le carrozze, i treni e le navi. Non ci volle molto a capire che un’auto, per via delle sue potenzialità straordinarie in termini di velocità, allora del tutto sconosciute agli altri mezzi di trasporto terrestri, avesse nella massa uno dei nemici da sconfiggere.
Non era nemmeno scoccato il XX secolo quando, nel 1899, la tedesca Dürkopp (che come la Opel e la Nsu passò dalle macchine per cucire alle automobili) costruì la Sportwagen con carrozzeria interamente in lega. Qualcosa di simile fece, tre anni più tardi, l’americana Marmon, con un guscio esterno in alluminio su un’ossatura di legno.
Prima della Grande Guerra anche Bugatti, Nsu e Pierce Arrow si cimentarono in esecuzioni analoghe. E fu proprio l’esperienza bellica nell’uso dell’alluminio a incoraggiare, negli anni 20, molti più costruttori in questo senso. Anche se rimasero più ipotesi sperimentali che slanci tecnici diffusi.
Tra le interpretazioni più creative, il sistema Superleggera brevettato dalla Carrozzeria Touring negli anni 30: un traliccio di tubi d’acciaio saldati allo châssis su cui sono applicati, tramite corrosione galvanica, pannelli di alluminio di spessore variabile. Un procedimento raffinato e complesso, totalmente artigianale, in cui l’alluminio è parte integrante e, in qualche modo, strutturale della carrozzeria.
Meno radicale, nel secondo dopoguerra, l’impiego di questo materiale sulla prima Land Rover (1948), i cui pannelli esterni sono in birmabright: è uno di quei casi in cui i derivati dell’alluminio sono usati non per le loro caratteristiche intrinseche, tra le quali la resistenza all’ossidazione, ma per mancanza sul mercato dell’acciaio.
In questo caso le parti in lega non hanno alcun rilievo strutturale, e lo stesso vale per la quasi coeva Panhard Dyna X del 1947, la cui “pelle” tutta di alluminio applicata su un telaio tubolare: in questo caso la leggerezza non è funzionale all’ottenimento di elevate prestazioni, ma a compensare una meccanica modesta (un bicilindrico 600 cm3 da appena 22 cv).
Anche la successiva Dyna Z, del 1953, inizia la propria carriera in alluminio per poi ripiegare sull’acciaio alla fine del 1955 per ragioni di budget. Quella delle auto nate in lega e convertite al “normale” ferro è una casistica peraltro piuttosto comune, che ha riguardato per esempio la prima serie della Lancia Appia (1953), le cui porte e i parafanghi posteriori furono in alluminio sino al telaio 4758 prima di passare all’acciaio.
Erano gli anni in cui anche numerosi dettagli di finizione ricorrevano ai metalli leggeri: nel caso della compatta Lancia, persino i paraurti, che però non resistevano agli urti di parcheggio e vennero per questo protetti da sottili strisce gommate. Medesima sorte sarebbe poi toccata alla Fulvia Sport Zagato, che ci ha fatto da modella per le foto di queste pagine: nata in lega di alluminio nel 1965, passa alla costruzione in acciaio dopo i primi 160 esemplari della 1300 seconda serie, alla fine del 1970. Queste non infrequenti successioni tra un metallo più nobile e uno più comune evidenzia uno dei limiti più nascosti dell’alluminio: la sua scarsa “mediaticità”.
Mentre un motore plurifrazionato si fa sentire e un pneumatico maggiorato è visualmente molto prestante, una carrozzeria light ha lo stesso, identico, aspetto di una normale, e tende per questo a non valere il costo della candela. Per di più, nel caso della “nostra” Fulvia Sport, lo switch avvenne in un’epoca in cui l’alluminio pareva destinato a una rapida estinzione per via della (relativa) diffusione delle carrozzerie in fibra di vetro.
Previsione poi rivelatasi infondata visto che molto tempo dopo, negli anni 90, l’alluminio sarebbe stato “promosso” a componente unico di scocche portanti per sportive (Honda Nsx, 1990), ammiraglie (Audi A8, 1994) e piccole (Audi A2, 1999). L’elevata riciclabilità di questo materiale, in un’epoca – come la nostra – così attenta alle tematiche ambientali e all’economia circolare, ne fa un componente particolarmente funzionale e “moderno” del quale sentiremo parlare ancora molto a lungo.
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