Testo di Marco Visani, fotografie Luca Danilo Orsi
Ferrari 330 GT 2+2. Si possono avere decine di auto: 20, 30, anche 150. Essersi dati delle regole originali per rendere la propria collezione unica e più interessante di qualunque altra. Solo la prima o l’ultima costruita, la fuoriserie, quella appartenuta a un vip, il prototipo di sviluppo. Si può essere Corrado Lopresto, insomma. Ma se si ha il tarlo della curiosità – che è poi il sale che rende così gustosa questa passione – si riescono a scovare motivazioni per derogare ai propri stessi precetti.
E ci si ritrova ad adottare un’auto che manco si possiede. A darle le stesse attenzioni che si riserva alle proprie. Tipo, un giorno tuo figlio Duccio ti dice: “Sai papà, il padre del mio amico Filippo vorrebbe rimettere in strada la Ferrari che aveva comperato più di vent’anni fa”. A Lopresto una Ferrari di serie come una 330 GT 2+2 del 1967 di suo dovrebbe dire poco, se non addirittura nulla. Ma è proprio qui che viene il bello. Perché questa “normalissima” (absit iniuria verbis) tre-e-trenta vive dal 1999 in un parcheggio sotterraneo in pieno centro a Milano, a cinque minuti a piedi dal Duomo.
A parte quel che sarà costata in affitto al signor Andrea Formenti, il vero “titolare” della vettura, il dettaglio che scatena la voglia di Corrado è che quel parcheggio è a due passi dal suo ufficio. E lui (cioè il collezionista più importante d’Italia, non il signor Rossi) non ne aveva mai sentito parlare. Insomma, se il destino ti invita a nozze tu cosa fai? Dici no grazie, ho un altro impegno? Ovviamente ti presenti all’appuntamento. Perché un barn find è sempre – parole di Corrado – poesia. Ecco, appunto.
E quindi, all’alba di un sabato di ottobre 2021, davanti al Car Central di via Chiaravalle 12 si materializza una scena da film. Un carro attrezzi scarica una Fiat Sedici, qualcuno fa da palo perché il camion sta bloccando la strada e quattro persone (tra cui Lopresto medesimo) scendono al piano meno due, dove il carro non riesce ad arrivare per limiti di altezza, gonfiano le gomme con un compressore e iniziano a “liberare” la Ferrari cercando di far piano. In questa fase ci vuole un amen perché la poesia diventi prosa, se non cronaca nera. Tale sarà in effetti per la frizione della povera Fiat, costretta a trascinare un’auto non solo pesantuccia, ma soprattutto con i freni bloccati.
Caricata in fretta e furia sul camion per liberare la strada, la Ferrari viene portata alla Autocolombo di Bareggio (nell’hinterland ovest) per una prima stima dei lavori. Poi trasferita nel garage di Corrado per lo smontaggio di interno e carrozzeria e infine rimandata dai Colombo. Dov’è soprattutto il giovane, appassionatissimo e competente Samuele a prendersene cura, dopo che Lopresto – in questa inedita veste di consulente – gli ha dato le dritte necessarie per contattare Ferrari Classiche e ricostruire, anche con l’aiuto di Emiliano Torcher, le origini della vettura.
Studiare è un esercizio utilissimo perché se ne scoprono sempre di nuove. A un’occhiata superficiale, questa coupé potrebbe sembrare pasticciata: è una seconda serie, quella coi fari singoli, ma ha ancora le ruote a raggi Borrani invece dei cerchi stampati. La scheda di montaggio dell’esemplare non solo spiega che fu il primo proprietario a richiederle espressamente così, racconta anche che, essendo una delle ultime prodotte (il telaio è il 10149, dopo di lei ne hanno costruite solo altre sei), è una sorta di interserie tra la 330 GT 2+2 medesima e la successiva 365 GT 2+2 che l’avrebbe sostituita a ottobre 1967, di cui monta infatti – e correttamente, appunto – pinze, servofreno, supporti motore, pompa acqua, radiatore, termostato e differenziale autobloccante.
Sempre “mister do-solo-un-occhiata” potrebbe storcere il naso di fronte alla “quadrotta” bianca alfanumerica. Eppure è proprio dietro questa targa moderna che si celano arcani ancora più interessanti. Questa 330 venne destinata al mercato francese: fu immatricolata nella Charente, Nuova Aquitania, con targa (personalizzata) 330 QJ 16. Smontando il serbatoio Samuele trova una grande quantità di sabbia rossa e finissima nella parte superiore.
Affina anche le ricerche e scopre che per molti anni questa vettura ha vissuto in Costa d’Avorio, poi è stata rivenduta in Svizzera prima di rientrare in Italia (dove riceverà il libretto attuale il 30 dicembre 1999, e verrà utilizzata brevemente da Formenti tra la città e le campagne della Brianza). Smonta, apri e controlla ed emergono dettagli che fanno quasi tenerezza. Come il franco usato quale succedaneo del tappino originale per evitare la fuoriuscita del grasso su un perno dell’avantreno.
I chilometri percorsi sono pochi (circa 60 mila) ma l’usura di molti organi meccanici lascia immaginare che nelle sue vite precedenti la 330 abbia conosciuto qualcuno che ci ha dato dentro. Anche perché sennò cosa te la comperi a dire, una Ferrari? L’idea originaria di farne un restauro conservativo naufraga man mano che i lavori procedono. Cioè: conservativo sì, ma comunque non una lucidata e un tagliando. Il liquido freni è una mousse che quasi si taglia col coltello, il motore – bloccato – viene aperto, canne e pistoni sono da buttare, i ruotismi della distribuzione vanno restaurati, i tubi aeronautici della benzina sono da rifare su campione, come pure le canalizzazioni telate e con anima in acciaio del riscaldamento.
Ferrari Classiche fornisce tanti pezzi ma non tutti, e quel che non si trova bisogna costruirlo in modo conforme. La trasmissione, per ora, è un terno al lotto. Passi la frizione inchiodata. Il cambio, una volta aperto, mostra ghiere lasche ma è pressoché impossibile stabilire, senza che nessuno l’abbia mai guidata da un quarto di secolo a questa parte, se i sincronizzatori siano sani o se ci sia il rischio di grattare.
È il suo bello, come si dice di una cosa che sai che in realtà non ti piace e allora te la racconti. Vale anche per i mesi infiniti che serviranno per ottenere da Pirelli Collezione un treno di 205 HR 15. E allora si rimontino pure le vecchie (e sbagliate, e vetrificate) 215 che aveva già, tanto per non reggerla sui cavalletti.
La carrozzeria ha sofferto meno, ma tutto è relativo. Ecco allora che un altro giovanissimo Colombo, Marcolino (l’impianto elettrico lo sta curando l’elettrauto Gatti, per non far torto al resto del regno animale) ha smontato ogni pezzo e si è tuffato (a pesce, ovviamente) in una sfilza di controlli di fino: lucidatura manuale dell’esterno, igienizzazione e trattamento del pellame, lavaggio della moquette, pulizia dei pomelli: tutto ciò che restituisce il senso della macchina genuina, del conservato non artefatto, la negazione dell’over-restoration, che è poi uno dei pallini del Lopresto-pensiero.
Il cantiere è comunque ancora in corso. Quella che avete letto altro infatti non è che la prima puntata di un racconto di cui vi sveleremo il finale (spoiler: sarà romantico, come l’inizio). Se solo ai tempi di Esopo fossero esistite le Ferrari, la favola avrebbe recitato che: se vicino al vostro ufficio c’è un multipiano di cui normalmente non vi servite, voi un giro fateglielo lo stesso. Non si sa mai.
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