Testo di Mattia Eccheli
Secondo gli esperti la soglia è quella delle 80.000 macchine l’anno: chi ne ne vuole vendere di più in Europa non può fare a meno di fabbricarne nel Vecchio Continente. Le ragioni sono molteplici, ma di sicuro né la linea ferroviaria né un più massiccio ricorso a navi cargo sembrano in grado di soddisfare in tempi rapidi la (presunta) grande domanda.
L’offensiva dei marchi cinesi, diversi dei quali a controllo pubblico, è appena cominciata. La Commissione Europea ha avviato accertamenti su eventuali violazioni delle norme sulla concorrenza per supporti all’export non conformi. Nei numeri, grazie alle elettriche, si rilevano solo crescite percentuali in tripla e talvolta addirittura in quadrupla cifra, più che in valori assoluti.
Le vendite di auto a batteria hanno subito una contrazione, ma Markus Heyn, il numero uno della divisione Mobility di Bosch, che da sola vale quasi i due terzi dei quasi 92 miliardi di fatturato della multinazionale della fornitura, ha ricordato che finora non si è ancora “accesa” la competizione nei segmenti più accessibili, quelli in cui viene particolarmente temuta l’offerta che arriva dalla Repubblica Popolare.
Produrre in Europa significa investire a lungo termine, ma significa anche essere in grado di rispondere più velocemente alle richieste che arrivano dal mercato locale, limitare i danni in caso di “colli di bottiglia” nella filiera e anche smaltire l’attuale sovrapproduzione nel Regno di Mezzo. Non solo. È anche un messaggio chiaro sia alla classe politica sia agli automobilisti che l’affermazione “siamo qui per restare” è molto di più di un semplice slogan.
Del resto è la stessa scelta che hanno compiuto con successo le case asiatiche in Europa e quelle europee, giapponesi e coreane negli Stati Uniti (e Tesla in Cina). Attualmente i dazi comunitari sono appena del 10%, anche se potrebbero venire ritoccati. Poi ci sono norme in vigore a livello nazionale, tipo in Francia o in Turchia, che di sicuro non aiutano le importazioni dalla Cina. Fabbriche europee potrebbero anche spalancare la strada a possibili incentivi pubblici locali o comunitari.
La BYD ha ufficializzato l’avvio della produzione del Vecchio Continente nel corso del 2026: la fabbrica sorgerà in Ungheria e dopo le iniziali 150.000 unità l’anno dovrebbe arrivare a 300.000 con l’obiettivo di raggiungere il 5% di quota. La Chery si è accasata a Barcellona, dove la Nissan aveva dismesso il proprio sito e dove i primi veicoli potrebbero uscire già entro l’anno dalle catene di montaggio. Il confronto con il governo italiano, che corteggia un secondo costruttore, sembrerebbe aver fatto passo in avanti sempre con la Chery, e potrebbe compierne altri con la Dongfeng, che vorrebbe produrre 100.000 auto l’anno e sfruttare i porti del Belpaese, come ha ricordato Qian Xie, capo delle operazioni europee.
La Leapmotor dovrebbe avviare la produzione in Polonia della compatta a zero emissioni T03 già con l’estate: lo stabilimento prescelto è quello di Tychy di Stellantis, che controlla il 21% del costruttore cinese. Almeno per ora non sembra essersi mossa la MG, il marchio britannico di proprietà del colosso SAIC, l’unico cinese ad aver superato la soglia dell’1% di quota in Europa. L’azienda a controllo pubblico si sarebbe però lasciata ancora un paio di anni di tempo per decidere se produrre nel Vecchio Continente o meno.
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