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Lancia Lambda, quando la carrozzeria divenne portante

di Redazione - 07/09/2024

Lancia Lambda, quando la carrozzeria divenne portante

Testo Marco Visani, fotografie Leonardo Perugini

A sentire i fan della Lambda, una comunità piccola e appassionata, la berlina è “quasi un tradimento”. O, quantomeno, non è tanto fedele alla filosofia originale quanto lo è la torpedo, pur essendo assai più rara. E il fatto è che non hanno mica tutti i torti. Quando Vincenzo Lancia svelò nel 1922 la prima auto al mondo con la scocca portante – un’idea copiata osservando lo scafo di una barca – a fare corpo unico era quello che di fisso esisteva, nella maggior parte delle vetture di allora: fiancate e pavimento.

Lancia Lambda, quando la carrozzeria divenne portante

L’aggiunta, sulla berlina, della parte superiore chiusa fu un’operazione posticcia. Nel senso che il padiglione non era un elemento strutturale, ma solo funzionale, al limite decorativo: un po’ come un hardtop su una spider nella cattiva stagione. Pratico, magari anche bello, ma comunque “riportato”. Sarebbe toccato alcuni anni più tardi alla piccola Augusta, nata nel 1933, il ruolo di primo modello chiuso di Chivasso a scocca integralmente portante.

Non è ciò che sembra

Per di più, a rendere ulteriormente spuria la protagonista di queste foto è il fatto che sia sì una berlina, ma tecnicamente chiamata in un altro modo: faux cabriolet, dove l’aggettivo francese va letto come “falso”. E non è che suoni benissimo. Si trattava di una moda – strampalata – degli anni 20 e 30: applicare sul montante posteriore di un’auto a guida interna due compassi cromati identici a quelli che equipaggiavano il mantice delle decappottabili. Che servivano, ovviamente, a niente.

Lancia Lambda, quando la carrozzeria divenne portante

Stavano lì solo per bellezza, una declinazione d’antan del vorrei ma non posso, nonostante chi si poteva permettere una Lambda, quale che essa fosse, potesse eccome. E comunque: al di là di queste considerazioni reali, oggettive e motivate, questa è una di quelle auto che, quando le si accarezza con gli occhi una prima volta, non consentono più di staccare lo sguardo. Incute quasi soggezione, grande, imponente e nobile com’è. Merito degli Stabilimenti Farina (da una cui costola sarebbe nata negli stessi anni la Pinin Farina, poi evolutasi nell’azienda che tutti conosciamo) che nel 1929 vestirono con questo abito da gran sera una “ottava serie”.

Lancia Lambda, di che serie si tratta?

Ecco, a proposito di serie bisogna entrare nella mentalità Lancia di un secolo fa. Ufficialmente ne hanno fatte nove, in realtà dalla prima alla quinta cambia pochissimo e, in ogni caso, il motore di 2119 cm³ delle origini viene mantenuto sino alla sesta. La settima serie passa a 2370 cm³ mentre la “nostra” ottava (aprile 1928/dicembre 1930) ha una diversa fusione del motore che restringe impercettibilmente l’angolo della V tra i cilindri.

È un 2568 cm³ con 69 cv capace di 120 km/h: tanto la potenza quanto la velocità sono aumentate di 20 (cavalli e chilometri all’ora) rispetto alle origini. L’esemplare su cui abbiamo avuto la fortuna di salire, costruito a novembre 1929, venne immatricolato a Catanzaro l’8 marzo 1930: ancora conserva la targa di quel periodo, piccola e a quattro cifre con la sigla della provincia successiva alla numerazione.

Tenuta al riparo dalle intemperie grazie a un deposito giudiziario, è arrivata ai nostri giorni con appena 13 mila chilometri effettivi e, dopo un periodo vissuto in Sicilia, è oggi nella disponibilità di un collezionista del nord Italia che a maggio 2023 l’ha portata all’ultima edizione del Concorso di Eleganza Città di Trieste. Più che un restauro conservativo, quello a cui è stata sottoposta è, in termini di carrozzeria, poco più che un’operazione di detailing.

Un mito su ruote

La sua classe cattura gli sguardi di chiunque: sono invece i particolari che mandano in sollucchero i veri conoscitori del modello, o chi più in generale sa apprezzare le veterane. Cose come i particolari nichelati invece che cromati, che Lancia smise di usare a cavallo tra il 1928 e il 1929, oppure il parasassi a tendina di marca Superba per proteggere il radiatore.

Lancia Lambda, quando la carrozzeria divenne portante

O ancora il contagiri Jaeger, al pari degli altri strumenti di bordo, curiosamente montato per la prima e unica volta sull’ottava serie visto che già sulla nona era scomparso, o ancora lo stemma Farina sui paraurti. Ma la delizia suprema è la copertura in vetro sui cappellotti delle candele: se il filamento in essa contenuto si illumina, significa che non arriva corrente.

Rivoluzionaria a tutto tondo

Se già si fa dare del lei quando la si osserva, la Lambda suscita ancora più rispetto appena ci si accomoda al posto guida. Il volante a destra, così poco naturale per un boomer – figuriamoci per uno più giovane – è tutto sommato la cosa meno strana. La cloche del cambio ha una disposizione e una lunghezza limitata, da sportiva inglese degli anni 60. In più, a differenza delle Alfa Romeo dello stesso periodo, c’è una pedaliera normale (cioè con il freno in mezzo e l’acceleratore a destra, e non viceversa), il che è confortante.

E per fortuna, perché senza sincronizzatori la doppietta è obbligatoria, dunque su quei pedali i piedi danzano senza posa. E non sempre con gli effetti desiderati: il cambio è uno dei più riottosi che esistano – parola di esperti – dunque anche ai più bravi almeno una grattatina, in capo a dieci chilometri, scappa. Poi ci sono quelle cose a cui un “moderno” fatica a prendere la mano, tipo il regolatore d’anticipo sul volante, imprescindibile su un’auto che ha il magnete invece dello spinterogeno. Compensate da altre soluzioni solo all’apparenza sorprendenti, come l’avviamento a pulsante, che in realtà a quell’epoca era assai diffuso.

Fresca anche d’estate

Il suo quattro cilindri gira basso e sornione, con quella sonorità vagamente da diesel tipica dei motori del suo tempo. La potenza, in rapporto alla massa, è modesta. La coppia (che si misura a orecchio, visto che all’epoca le case non la dichiaravano) è viceversa bella consistente, ed è una consolazione perché in terza si fa praticamente tutto e ci si può quasi dimenticare di quella faccenda del cambio.

Anzi, al netto di una progressione che sconfina nella lentezza, persino in quarta si può giocare con il gas a velocità da corteo. E se anche l’auto si dovesse spegnere, la batteria da 12V (quando la ben più moderna Aprilia dovette accontentarsi per gran parte della propria esistenza di 6V) permette di tentare un paio di avviamenti in più senza patemi d’animo.

 

I freni, pur meccanici, e come tali non certo molto efficienti, almeno si rivelano perfettamente equilibrati. Soprattutto, c’è una cosa insospettabile che fa innamorare, in questa Lambda: grazie alla costruzione mista alluminio e legno (che fa da isolante termico), alle superfici vetrate poco estese, al parabrezza verticale e alla mancanza di gommapiuma nei sedili, anche in una calda giornata estiva riesce a essere sorprendentemente fresca. Il condizionatore, ovviamente, era di là da venire. Ma con un abitacolo così, cosa lo avrebbero inventato a fare?

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