Una volta, per riassaporare quella sensazione di libertà che solo l’automobile era in grado di regalare, non c’era niente di meglio di una spider. Possibilmente inglese. E non tanto per una questione di stile, quanto piuttosto per quel principio del less is more che le rendeva irresistibili. Poi è successo qualcosa d’inspiegabile e le auto britanniche sono finite nel sottoscala della memoria, addirittura sui cavalletti, così se anche fosse venuta voglia di ricordarle, sarebbe passata subito. Peccato, verrebbe da dire, anche e soprattutto guardando adesso questa Triumph Spitfire 4, dove il numero quattro racconta da solo una piccola storia. Che è quella dell’italiano che l’ha disegnata, tale Giovanni Michelotti da Torino, uno dei designer più prolifici e importanti per l’intera industria dell’automobile: pare che Michelotti abbia sottoposto ai vertici Triumph differenti proposte di stile e che alla fine venne scelta appunto la numero quattro.
Il contesto nel quale germoglia l’idea di produrre una piccola spider economica è l’Inghilterra degli anni 60. Una società in accelerazione, sospinta dalla musica dei Beatles e poi dei Rolling Stones, eccitata dopo anni di repressione sessuale e alimentata dalle sottoculture giovanili. E la Triumph non può stare alla finestra a osservare le Austin Healey Sprite sfrecciare (si fa per dire) sulle strade, dispensando senso di libertà e d’indipendenza. A Michelotti la Triumph si era già rivolta per il restyling della Vanguard e per la Herald (modelli pressoché sconosciuti dalle nostre parti) e lo fa ancora per sviluppare lo stile della nuova aperta, considerata un inserimento essenziale per completare la gamma.
L’aggettivo nuova, va detto, non è sinonimo di innovativa: il motore, per esempio, la cui entrata in produzione è questione di pochi mesi, è inedito, ma è ancora ad aste e bilancieri quando nel resto del mondo si stavano già diffondendo quelli con l’albero a camme in testa (per non dire dei bialbero). E pure la carrozzeria non sarebbe stata portante, come sulla maggior parte delle altre automobili, ma montata su un telaio separato (benché qui svolga un compito di irrobustimento), come si faceva dai tempi delle carrozze o con le fuoristrada, che sono l’esatto contrario di una scoperta a due posti, per quanto sul senso di libertà lavorino allo stesso modo.
Non erano giorni sereni, comunque, dalle parti di Coventry: la spider nasce proprio nel mezzo dell’acquisizione del marchio da parte della Leyland, in un momento di grande difficoltà commerciale. Alla Triumph, sembra subito chiaro a tutti, non basta la riuscita e apprezzata Herald per sopravvivere. Così, quando la nuova dirigenza vede il prototipo di Michelotti, dà subito il via libera alla produzione. La Triumph Spitfire 4 si presenta all’Earls Court Motor Show di Londra del 1962 ed è un sollievo per tutti. Perché restituisce un po’ di speranza alla Casa e perché l’accoglienza è oggettivamente assai favorevole. Gli ordini fioccano già nella settimana del Salone e per la piccola, elegantissima Spitfire 4 inizia una solida carriera commerciale.
Pur con appena 64 cavalli, che comunque fanno un figurone, anche per via della “voce” così scoppiettante oltre che per la massa di poco superiore ai 700 kg, la piccola Triumph riesce a tenere testa, emotivamente s’intende, a roadster di caratura ben maggiore. Sembra più macchina di quanto non lo sia e, di sicuro, supera di qualche lunghezza le sue concorrenti dirette: la Sprite naturalmente, ma anche la MG Midget, che nel frattempo aveva debuttato puntando allo stesso segmento di mercato.
Poi c’è la leggenda della mano che deve toccare l’asfalto, che poi tanto leggenda non è. Primo, perché effettivamente la Spitfire è talmente bassa che dal posto guida si può sfiorare con le dita il manto stradale. Secondo, perché le cronache dell’epoca riportano che era stato il progettista britannico Harry Webster, responsabile del progetto Spitfire (nome in codice Bomb), a imporre a Michelotti questo requisito. Il che spiega perché la linea di cintura volga verso il basso proprio in corrispondenza della spalla del guidatore, prima di risalire per avvolgere il parafango posteriore.
Il fatto è che sulla Spitfire 4 si sta realmente seduti per terra, appena qualche centimetro davanti all’asse posteriore, e quasi distesi: ormai le abbiamo dimenticate certe sensazioni, ma questa piccola automobile scoperta è qui per ricordare che non siamo cresciuti sulle suv e sulle crossover. Il suo metro scarso di altezza, misurato alla sommità del parabrezza, colloca la vettura al di sotto della linea di cintura della maggior parte delle sport utility dei nostri tempi e probabilmente anche al di fuori del campo visivo dei loro guidatori: vale la pena tenerlo presente, guidando nel traffico.
Per il resto è pura goduria, considerando il baricentro rasoterra e le masse concentrate tra i due assali, lo sterzo piuttosto diretto e un assetto regolato più sul divertimento che sulla performance pura. L’emozione sulla Spitfire 4 arriva subito, snocciolando una marcia dietro l’altra e lasciando scivolare il retrotreno ogni volta che ne ha voglia. E succede tutto a velocità talmente basse che viene spontaneo chiedersi: “Cosa volere di più?”.
Marco Turinetto, docente e ricercatore presso la facoltà di design del Politecnico di Milano, direttore del Master Licensing & Brand Extension e autore di libri, tra i quali Dizionario del design (1993) e Automobile. Glossario dello stile (2001), è uno abituato a riconoscere la bellezza in tutte le sue espressioni, anche quella nascosta, sussurrata, discreta. Il professore milanese, che ha una predilezione per tutto ciò che è italiano e inglese, si è fissato su questa vettura molto tempo fa: prima l’ha scoperta, poi l’ha studiata e infine l’ha cercata ossessivamente. Fino all’anno scorso, quando si è imbattuto nell’esemplare definitivo: una prima serie Royal Blue, tinta piuttosto inconsueta per il modello.
Secondo il documentatissimo The International Triumph Spitfire Database, le Spitfire 4 censite di questo colore sono soltanto 15 nel mondo, due in Italia. Turinetto si lascia sedurre dai rivestimenti interni di un bel rosso acceso, che con il blu scuro della carrozzeria formano una combinazione strepitosa; dalla dicitura Meccanica Ducati Bologna, che assieme alla emme minuscola di Michelotti sulle leve di apertura del cofano, sottolinea la quota di italianità del progetto; dalla targa nera quadrata Viterbo, testimonianza dei trascorsi nel nostro Paese sin dalle origini: la sua Spitfire 4 era targata Roma e ha avuto soltanto due proprietari prima di lui.
Fanno la loro parte anche i dettagli, tantissimi, fuori e dentro: le cromature, le lettere e i loghi sui cofani, i fanalini posteriori di allumino, le ruote a raggi, il volante Motolita, la grafica degli strumenti Jaeger, i pulsanti sul cruscottino apparentemente disposti a caso… La Spitfire 4 si lascia osservare a lungo nei particolari, ognuno dei quali è un insieme di attenzioni e adattamenti, un mix di scelte volute e di decisioni imposte.
Però il risultato è straordinario, pensando che questa era un’automobile economica. E lo è ancora: le spider inglesi sono passate di moda e dunque è tornato il momento di cercarle, comprarle, guidarle, riscoprendo una vita di club attivissima e condividendo una scelta che oggi, in un mercato regolato dalle youngtimer, sembra quasi controcorrente e che invece è furbissima. Poi, vabbè, si sa che le imperfezioni del progetto si sommano a quelle del tempo: la capote, per esempio, non dà proprio l’impressione di essere a prova d’acqua, ma fa parte del gioco. Meglio toglierla del tutto e non pensarci più, anche perché rovina la purezza dello stile e le proporzioni perfette scaturite dal genio di Giovanni Michelotti.
Solo una licenza si è concesso il professore di design: ha voluto contraddistinguere la sua Triumph Spitfire 4 con un tocco personale, applicando una striscia trasversale bianca − bianco 9010, per l’esattezza, un avorio chiarissimo e caldo − che taglia in due il lungo cofango, ricordando in un certo qual modo, se non proprio citando, la Ferrari 250 Berlinetta Swb da corsa di un certo Stirling Moss. Ritornano ancora una volta l’Italia e l’Inghilterra, le passioni di Marco Turinetto: “Desideravo un’automobile che parlasse di me, nella quale mi riconoscessi e che fosse inequivocabilmente la mia”, spiega il professore. Basta poco, certe volte, per raggiungere lo scopo.
Testo e foto Carlo di Giusto
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