Testo di Ivan Capelli. Fotografie di Mattia Negrini
Ci fu un tempo in cui la febbre della potenza e della velocità, dalle vetture dichiaratamente sportive come le gt, passò alle ben più moderate e signorili berline. Siamo tra gli anni 80 e 90 quando il fervore della sperimentazione spinge i costruttori a inventarsi una nuova nicchia di mercato: quello delle tre volumi supersportive e veloci. Nasce così la Lancia Thema 8.32, per l’appunto otto cilindri (2927 cm3) e 32 valvole, con 215 cv: la trazione è anteriore. Ma c’era anche la Ford, con la Sierra motorizzata Cosworth, spinta da un quattro cilindri 2000 (ovvia- mente 16 valvole), capace di 204 cv pronti a essere scaricati sull’asse posteriore. Gli americani della General Motors, sentendosi provocati proprio nel loro naturale terreno di caccia, cioè quello delle cilindrate generose e delle potenze elevate, ed essendo proprietari dei marchi Opel e Lotus, chiedono ai tedeschi di mettere a disposizione la Omega e agli inglesi, forti del loro dna sportivo, di rivisitare il progetto. Così nel 1990 arriva sul mercato la Opel Omega Lotus, la più veloce di tutte.
Alla vista anteriore si notano subito le prese d’aria di maggiori dimensioni per soddisfare il raffreddamento e l’intercooler dei turbo. Sul cofano spiccano i due sfoghi d’uscita dell’aria, mentre vicino ai passaruota anteriori allargati è presente lo storico logo Lotus a legittimare la nobiltà di questa vettura, con tanto di iniziali bianche su fondo verde e giallo del patron Anthony Colin Bruce Chapman. Al posteriore, la presenza dell’alettone di misure contenute mantiene una linea sobria e senza esagerazioni, contribuendo a raggiungere un coefficiente di penetrazione aerodinamica molto favorevole, pari a 0,30. L’ingresso in abitacolo non presenta particolari difficoltà e il sedile ha una caratteristica più votata al comfort che al contenimento in curva, anche se una volta al volante è percepibile l’accenno di supporto laterale per gambe e torace.
La plancia non si discosta da quella delle Omega “civili” e rimane invariata per la dimensione dei tasti, molto generosa, e per la presenza delle bocchette dell’aria centrali. Anche la strumentazione resta simile negli indicatori di giri motore e velocità mentre, a ricordare di essere seduti su una versione speciale, è in pratica il solo volante, su cui campeggia la scritta “Lotus Omega”. Cerco nel piantone il comando per regolare la posizione di profondità e altezza, ma la mia mano non trova nulla. Mi sporgo allora verso sinistra e vedo una leva ingombrante: cercando di capire a cosa serve, scopro che mi permette di regolare solo l’inclinazione del volante, non la profondità.
Nel 1990 il prezzo di questa macchina era di 115 milioni di lire, un importo elevato a fronte del quale poteva certamente essere fatto uno sforzo in più per comfort e precisione di seduta. Accendo il motore e, a riportarmi indietro nel tempo, sono il rombo soffocato del sei cilindri in linea, ma soprattutto lo sforzo che devo fare sulla frizione per poter inserire la prima marcia. Eh sì, una volta il pedale sinistro richiedeva una pressione importante alla gamba, qualcosa di impensabile, oggi, in tempi di frizioni di “burro”.
Alla prima accelerazione lo scatto in avanti è notevole e in modo naturale inserisco la seconda, la terza, la quarta marcia, per una progressione continua, a sfruttare i quasi 570 Nm di coppia massima disponibili intorno ai 4200 giri. Ma poi rallento perché sento qualcosa di strano. Lo percepisco nel motore. Funziona tutto perfettamente, sia chiaro, eppure c’è un dettaglio che richiama la mia attenzione. Attenzione che si trasforma prima in curiosità e poi in compiacimento. Voglio provare ancora per essere sicuro, quindi accelero, sempre partendo dalla prima, per sfruttare diversi rapporti e finalmente comprendo cosa era stato a colpirmi così: il motore della Omega Lotus ansima. Proprio così, il motore ansima. I due turbocompressori Garrett T25, raffreddati da un doppio intercooler aria-acqua, con pressione di 0,7 bar, spingono il sei cilindri in profonde accelerazioni, ma quando si cambia marcia i due turbo emettono un “rantolo” tipico di quel periodo. L’effetto è ancora più marcato se si mantiene un rapporto, affondando l’acceleratore per poi parzializzare e accelerare nuovamente. Chi ama questo genere di vetture definirebbe questo effetto “motorsport music”.
Nel rettilineo successivo lascio che il sei cilindri sviluppi tutta la sua potenza e, a naso, i 377 cv dichiarati ci sono tutti. Questa vettura può raggiungere i 283 km/h, un primato (tra le berline di serie) che la Opel Omega Lotus mantenne a lungo, visto che dovette cederlo solo nel 2005 alla Bentley Continental Flying Spur.
Le prime curve vere mettono alla prova la frenata e l’impianto firmato AP, derivato dalle esperienze agonistiche di quel periodo, con dischi anteriori da 330 mm e posteriori da 300 mm, con pinze a quattro pompanti. La potenza soddisfa pienamente i requisiti di reattività al pedale e modulabilità nella pressione, che si traducono nella giusta decelerazione.
L’inserimento in curva evidenzia però i primi limiti della Omega Lotus. I 1765 kg di peso si fanno sentire tutti in un rollio evidente che mette a dura prova tutto il reparto cinematico di sospensioni e ammortizzatori. Peraltro, quelli posteriori derivano dalla versione Senator e sono autolivellanti: se sul veloce possono dare un aiuto a mantenere un assetto più corretto, là dove invece si trasferiscono i pesi con meno violenza tra gli assi (cioè sui tratti più guidati) si rivelano molto meno efficaci. I movimenti della cassa del telaio sono evidenti e, per meglio gestire queste reazioni, è importante agire con delicatezza su acceleratore e volante. Ma il desiderio di trovare il limite mi invoglia a schiacciare a fondo il pedale a centro curva e la conseguenza è una derapata derivata dall’esubero di potenza, controllata bene dalla percentuale di apertura della farfalla del motore insieme alla correzione del volante. In questo caso l’autobloccante di derivazione Holden Commodore fa il suo e “giocare” con la potenza diventa un piacere, così come sfruttare, nell’uscita dalla curva in accelerazione, il cambio a sei marce (con una sesta “overdrive”) preso in prestito dalla Corvette C4 ZR1. Il movimento della leva risulta un po’ lungo e questo influisce sulla velocità di esecuzione del cambio marcia sia in “up” sia in “down”, come direbbero gli inglesi, ma non ha ripercussioni sulla precisione.
I chilometri scorrono via veloci e il comfort della Opel Omega Lotus viene confermato anche là dove l’asfalto è un po’ sconnesso, nonostante le gomme sportive e dalle misure particolari: sì perché́ i pneumatici sono 235/40 all’anteriore e 265/40 al posteriore, montati su cerchi da 17”, scelta ancora una volta di unicità̀ per quel periodo (per avere un riferimento, la Thema 8.32 usciva con cerchi da 15”). Anche se le prestazioni sono da supercar, non mi dimentico di essere a bordo di una berlina e alla prima sosta provo i sedili posteriori.
Lo spazio per gambe e seduta è da salotto, termine spesso abusato, ma che calza perfettamente alla Omega Lotus. Scendo dall’auto e apro il bagagliaio e, una volta di più, mi rendo conto di quanto quest’auto sia stata unica nel suo genere.
Volume minimo di carico di 520 litri, che diventano 865 ripiegando gli schienali posteriori, in modo da assecondare tutti gli hobby (per esempio sci o golf) dei 950 proprietari: era questo il numero di vetture prodotte in totale, 70 delle quali importate in Italia. L’unico limite? Una scarsa possibilità di personalizzazione, a partire dal colore che era uguale per tutti: il particolarissimo Imperial Green.
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