Di Daniele P.M. Pellegrini, fotografie Wolfango
Non è stata proprio per determinazione. La scelta di un’auto “personale”, da usare in alternativa all’utilitaria di famiglia, è stata un processo complesso e variegato nel corso del quale i punti fondamentali (budget ridotto, modello “non banale”, meccanica raffinata, buone prestazioni, cambio rigorosamente manuale) hanno portato a una shopping list dinamica dove all’inizio è davvero entrato di tutto (dalla Bertone Freeclimber alla Cadillac Cts, per capire…).
Poi un più preciso orientamento verso le compatte Bmw a sei cilindri e proprio durante queste ricerche l’occhio è caduto (per analogia e per le astute logiche dei siti di ricerca) sulla Jaguar S-Type. Inizialmente per la sorpresa dei prezzi stracciati di alcuni esemplari, oggettivamente improponibili, ma presto, con la complicità di un cuore automobilistico che batte fortemente per l’Oltremanica, la curiosità è diventata interesse e quindi ricerca, confortata da qualche consulenza autorevole da parte di chi “la conosceva bene”. Un processo calmo, razionale e puntiglioso, favorito dalle sterminate quanto dispersive opportunità del web.
La “preparazione” e il tempo sono stati fondamentali tanto che, colta la segnalazione promettente e dopo una breve ulteriore verifica di base per capire se fosse o meno un bidone, il primo appuntamento è diventato una specie di speed dating: verifica dei tagliandi, un’occhiata all’olio, la pompa acqua (già sostituita!), la pelle dei sedili, i punti critici della scocca. Poi, mentre il proprietario alla guida fa il giro dell’isolato, orecchio teso ai rumori e tanto pasticciare con tutti i pulsanti possibili. Una Jaguar di vent’anni con tutta l’elettronica e gli automatismi perfetti (nella Executive anche il piantone dello sterzo è elettrico), più che sorprendente, è convincente e così la frase di rito “ci penso e le faccio sapere” ha preceduto di poche ore quella decisiva “se le va bene tot domani andiamo dal notaio”. Senza guidarla? Sì. Un po’ di presunzione e la conoscenza del modello fin dalla nascita (ahimè, anch’io c’ero, ed ero già grande) mi hanno convinto fosse la scelta giusta. Il resto è sensazione e alcuni dettagli qualificanti, come la permanenza sul vetro dell’adesivo del concessionario (oltre al badge originale) e l’optional del Giaguaro sul cofano (accessorio poco praticato all’epoca, adattato alle normative con l’attacco collassabile), davano l’idea di un proprietario premuroso.
Classe, distinzione e una dinamica apprezzabile sono le doti di fondo della S-Type, un “cat” degno del suo simbolo malgrado il distacco dei jaguaristi più snob, che la ritengono troppo Ford (non proprio come la X-Type ma quasi) per essere un’autentica cat-car. Il peccato originale è la piattaforma (siglata Dew nella denominazione tecnica, che significa “un po’ segmento D, un po’ segmento E” e Worldwide, a sottolinearne la vocazione globale), colpevole di essere stata utilizzata anche negli Stati Uniti per la Lincoln LS del 2000 e per la riedizione della Thunderbird del 2001. Nei fatti, invece, la botta di modernità di un sei cilindri da Terzo millennio (il collettore di aspirazione a lunghezza variabile è una chicca tecnologica) e delle sospensioni molto sofisticate, assieme a una generosa quantità di soldi messi a disposizione dello sviluppo di un modello “manifesto” della nuova generazione Jaguar, hanno permesso ai tecnici di Coventry di mettere assieme la souplesse tradizionale con una guidabilità che faceva (e fa) impallidire le classicissime XJ.
All’epoca in Jaguar ne erano talmente convinti da realizzare la versione R, mettendo sotto il cofano il motore V8 sovralimentato, con la precisa intenzione di farne la rivale della Bmw M5. Va da sé che la tentazione di portarsi a casa questa simil M (o simil Amg) made in UK è venuta, ma, volendo un’auto da usare e non solo un mero oggetto da collezione, hanno prevalso considerazioni di costo e affidabilità. L’idea, poi confermata, era che fosse meglio non cercarsi guai e che i cavalli del 3000 con il “manuale” (la R tra l’altro è soltanto automatica) fossero comunque più che accettabili.
Per concludere la difesa d’ufficio della piattaforma Dew, va anche ricordato che la stessa base è stata poi utilizzata per la successiva XJ, prodotta dal 2004 al 2015, cioè fino all’avvento delle piattaforme comuni Jaguar-Land Rover portate in dote dalla gestione Tata. Proprio la voglia di sfruttare il bello e il buono dell’assetto raffinato della S-Type mi ha spinto a una piccola licenza, con il recupero di un set di cerchi da 17 pollici (optional all’origine, di serie sulle versioni V8) con pneumatici della misura prevista (245/45) ma con l’upgrade della classe Y di velocità (fino a 300 km/h). Intendiamoci, niente velleità da track day, ma il giochino ha il suo senso per i pervertiti che, anche andando a spasso, non hanno perso il vizio di apprezzare il contatto diretto con la strada e il rigore delle traiettorie. Perché la S-Type è soffice ma “piatta” e non si scompone anche se maltrattata: smussa gli angoli come le curve, non reagisce mai in modo brusco ma con un equilibrio e un controllo che le Jaguar precedenti (mi perdonino i puristi) si sognano. C’è chi si sente a suo agio con il loden, chi con il Barbour, chi con l’impermeabile. Se il gusto applicato all’automobile è per molti superato, ci sono appassionati, giovani e vecchi, per i quali guidare è ancora una questione di feeling e il clima di bordo fa la differenza. La S-Type va apprezzata per questo, per gli abbinamenti di legno e pelle, per la morbidezza dei comandi e delle reazioni; il cambio non è secco come quello Bmw e il pedale del freno non è così pronto, tanto per dire. Se parliamo di motori, poi, il sei cilindri in linea di Monaco è più grintoso mentre quello Jaguar (due bancate a 60° come devono essere i V6 secondo l’ingegneria) privilegia la fluidità, allargata agli alti regimi (con poco rispetto si toccano i 7000 giri/min) ed è talmente lineare che è difficile accorgersi in che marcia si sta viaggiando.
La S-Type in generale non è troppo chic da impegnare, ma ha uno stile che si distingue; nel caso specifico, siamo al cospetto di una macchina piacevole, capace di svolgere il compito di “daily driver” senza patemi e con prestazioni sufficienti a non sfigurare con molte berline più giovani. Oltre alla sostituzione delle ruote (le originali, immacolate, sono nel box) la sola licenza che mi sono concesso è il simbolo della Gsa (Goodwood supporter association) sul parabrezza, mentre resta ancora da collocare il vistoso badge d’epoca della AA (quello cromo e giallo con la ruota alata), che darebbe un ulteriore tocco di prestigio british, ma sulla griglia proprio non ci sta.
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