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“Non ci sono le condizioni per il ban termico del 2035”: l’appello dei big dell’auto  

di Emiliano Ragoni - 27/08/2025

“Non ci sono le condizioni per il ban termico del 2035”: l’appello dei big dell’auto  

Articolo in sintesi 

  • Appello all’UE: i costruttori europei chiedono a von der Leyen di rivedere lo stop ai motori termici previsto per il 2035.
  • Motivi geopolitici: pesano il dominio cinese nella filiera EV e i nuovi dazi USA.
  • Mercato in difficoltà: l’elettrico è fermo al 15% e la domanda rallenta; margini e occupazione restano legati ai motori tradizionali.
  • Transizione a rischio: l’industria chiede un approccio più realistico e meno ideologico.
  • Fronte politico diviso: Bruxelles difende il 2035, ma cresce il pressing per una revisione netta

Il ban dei motori termici al 2035 non è attualmente fattibile. È questa la sintesi della missiva (QUI il testo) che i principali leader europei del settore dell’auto e della componentistica hanno indirizzato al presidente della CE, Ursula von der Leyen.

Secondo la lettera congiunta, riportata anche da Bloombergi big dell’Automotive sostengono che il dominio della Cina nella catena di approvvigionamento dei veicoli elettrici e le nuove barriere commerciali statunitensi rappresentano nuovi ostacoli.

Addio ban al 2035?

“Raggiungere gli obiettivi di CO₂ per il 2030 e il 2035 non è più fattibile nel mondo di oggi”, scrivono Ola Källenius, presidente di Acea e Ceo di Mercedes-Benz Group, e Matthias Zink, numero uno di Clepa (associazione dei fornitori di componentistica) e dirigente del gruppo Schaeffler. “La trasformazione dell’industria europea deve fare i conti con le attuali realtà industriali e geopolitiche”.

Le Case automobilistiche– sottolineano i firmatari – continuano a generare i maggiori margini dai modelli termici, in particolare suv e vetture di lusso e premium, che assicurano maggiori margini. Ma a soffrire sono anche i fornitori: emblematici i tagli annunciati da Continental e i segnali di allarme lanciati da Valeo sulla tenuta della redditività in un contesto segnato da costi elevati e tassi in aumento.

Quale futuro per l’industria europea dell’auto?

La lettera arriva in un momento delicato per l’intero comparto industriale europeo, che rischia di subire un contraccolpo occupazionale di vasta portata. Bruxelles, tuttavia, ribadisce per ora l’importanza della scadenza del 2035 per il raggiungimento dei target climatici. Il Green Deal, votato con una maggioranza risicata, è già stato recepito da Paesi come Francia e Paesi Bassi.

Ma il fronte delle critiche si allarga, e l’industria chiede con forza un cambio di rotta: non per abbandonare la transizione, bensì per renderla concretamente sostenibile.

La domanda di veicoli elettrici rallenta, con una quota di mercato ancora ferma intorno al 15% e forti disparità tra i diversi Paesi dell’Unione.

L’opinione

Serve realismo, non slogan. L’industria europea chiede tempo e coerenza

Le incertezze geopolitiche si moltiplicano. E il ritorno di Donald Trump, con i dazi all’Europa, non fa che peggiorare un quadro già difficile. In questo contesto, i costruttori europei stanno tentando di fare squadra. Anche attraverso sinergie che, fino a ieri, sembravano impensabili: si parla, ad esempio, di una possibile alleanza tra Bmw e Mercedes, con quest’ultima che potrebbe adottare i motori della Casa dell’elica.

Eppure, sinergie, razionalizzazioni e – purtroppo – chiusure non sono bastate a fermare l’emorragia di posti di lavoro nel settore. Da anni le aziende del comparto hanno delocalizzato la produzione verso Paesi più competitivi, attratti da un contesto economico più favorevole e da una burocrazia meno opprimente.

L’Europa, intanto, ha perso tempo sulla transizione ecologica. L’auto elettrica, in particolare, è stata affrontata con ritardo e senza un piano industriale coerente. A differenza della Cina, che ha sostenuto lo sviluppo della mobilità a emissioni zero con incentivi strutturati e un chiaro disegno strategico.

In Italia il quadro è ancora più preoccupante. Mentre i marchi cinesi guadagnano quote di mercato e presidiano segmenti popolari, i costruttori nazionali si sono ritirati da quelle fasce, un tempo presidiate da modelli accessibili e pensati per le famiglie. I pochi modelli ancora presenti sono spesso proposti a prezzi elevati e, in certi casi, difficilmente giustificabili.

Il rischio è duplice: da un lato, perdere ulteriore capacità produttiva, con un progressivo impoverimento industriale (il contratto di solidarietà siglato a Termoli è emblematico) dall’altro, lasciare che la mobilità diventi un bene di lusso. Il settore chiede tempo, ma anche una strategia chiara. Meno slogan, più realismo.

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