
Testo di Fabio Madaro
Una data che è passata alla storia – Era il 6 ottobre 1955 quando, al Salone dell’Automobile di Parigi, Citroën svelò qualcosa che avrebbe segnato per sempre la storia dell’auto. Si chiamava DS, ma per tutti divenne subito la Déesse, la Dea. Non solo per l’assonanza con la parola francese, ma perché quell’auto sembrava davvero scesa dal cielo. Mentre il resto del mondo arrancava ancora con telai a longheroni, freni a tamburo e soluzioni progettuali nate prima della guerra, la DS atterrava sul pianeta auto con una carrozzeria filante, una linea aerodinamica e una dotazione tecnica che oggi definiremmo da prototipo.
Non si era mai vista un’automobile così. Era lunga, bassa, affusolata, con le ruote posteriori parzialmente carenate e un cofano appuntito che pareva disegnato per sfidare il vento. E aerodinamica in effetti lo era davvero: il suo Cx di appena 0,36 farà impallidire persino le berline tedesche degli anni Ottanta. Il merito era del designer italo-francese Flaminio Bertoni, già autore della 2CV, e dell’ingegnere André Lefèbvre, due visionari che avevano immaginato l’automobile non come un mezzo di trasporto, ma come un oggetto integrato nel paesaggio moderno.
La DS si distingueva anche per i dettagli più piccoli. Il volante era a razza singola, pensato per migliorare la visibilità del cruscotto ma anche per ridurre i traumi in caso di incidente. I fari, nelle versioni successive, erano direzionali, collegati allo sterzo, così da illuminare le curve. Il freno non era un pedale ma un “fungo” sferico, da premere con leggerezza. Tutto era pensato per essere funzionale e al tempo stesso sorprendente.
Ma la vera rivoluzione non era visibile. Era idraulica, ed era nascosta sotto la carrozzeria. La DS fu la prima auto di grande serie a montare un sistema idropneumatico centralizzato che alimentava sospensioni, freni, cambio e sterzo. Le sospensioni, in particolare, erano quanto di più vicino a un tappeto volante si potesse immaginare: sfere pressurizzate contenenti gas azoto e fluido minerale garantivano un’ammortizzazione attiva, capace di mantenere sempre orizzontale la scocca su qualunque tipo di fondo. Non era solo una questione di comfort: la DS poteva anche alzarsi o abbassarsi su richiesta, semplicemente spostando una leva accanto al sedile del conducente. In caso di foratura, bastava sollevarla, rimuovere la ruota e sostituirla senza nemmeno usare il cric.

Nel 1955, tutto questo sembrava magia. La prima versione montava un motore a benzina di 1911 cc, quattro cilindri in linea, che erogava 75 cavalli e le permetteva di superare i 140 km/h, una velocità non comune per una grande berlina di quell’epoca. Ma erano le sensazioni di guida a stupire: silenzio, assorbimento delle asperità, risposta morbida del cambio semiautomatico e dello sterzo assistito. A detta di molti automobilisti, bastava un dito per condurla. E non era solo una metafora.
Il pubblico ne fu folgorato: 12.000 ordini nelle prime 24 ore e 80.000 entro la fine del salone. Un record per il tempo. La DS venne adottata rapidamente anche dal potere: Charles De Gaulle la elesse a vettura presidenziale e nel 1962, durante un attentato, fu proprio una DS 19, con due gomme bucate e mitragliata, a salvarlo grazie alla tenuta di strada e alla stabilità garantita dal suo assetto.

Nel corso degli anni, la gamma si ampliò con versioni più potenti come la DS 21 e la DS 23, arricchite da finiture più lussuose, fari allo iodio e prestazioni più brillanti. Le carrozzerie firmate Henri Chapron, tra cui splendide cabriolet e limousine su base DS, divennero icone di eleganza e oggi sono tra gli esemplari più ricercati dai collezionisti, con quotazioni che superano i 200.000 euro.
La DS era anche un laboratorio mobile. Nei rally africani, grazie alla sospensione attiva, si guadagnò una reputazione inattaccabile per affidabilità e comfort. In città, fu persino sperimentata in versione elettrica, negli anni Settanta, con batterie al piombo e un’autonomia di circa 70 km: un’idea pionieristica, troppo avanti per l’epoca. La DS elettrica faceva parte di una sperimentazione interna di Citroën che esplorava alternative ai carburanti fossili, complice la crescente attenzione alle problematiche ambientali e le prime avvisaglie della crisi petrolifera del 1973.
Quanto alla DS di serie, la sua carriera produttiva durò fino al 1975 quando venne definitivamente sostituita dalla CX che era entrata in produzione nel corso del 1974. In vent’anni uscirono dalle linee di montaggio oltre un milione e quattrocentomila esemplari, declinati in versione berlina, Break familiare e cabriolet. Ma il mito, quello vero, non si è mai fermato.

A settant’anni dal debutto, la DS è ancora un oggetto del desiderio. Restaurarla è una sfida per meccanici e artigiani, ma anche un atto d’amore. E perché no, anche un buon investimento. Possederla significa entrare in un altro mondo: quello in cui l’automobile non era solo un mezzo per spostarsi, ma un manufatto culturale, un’opera di design, una dichiarazione di visione. Persino il marchio DS Automobiles, rispolverato negli ultimi anni e ora sotto il controllo di Stellantis, cerca di rifarsi a quell’epoca gloriosa, evocando con le sue berline e crossover premium un passato che, in realtà, nessuno è mai più riuscito a replicare.
Perché la DS non fu solo una grande Citroën. Fu l’automobile che ridefinì l’idea stessa di auto, la prova che il futuro, a volte, può arrivare all’improvviso grazie a un folgorante lampo di genio. E restare lì, immobile e perfetto, come un’icona senza tempo.
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