
Ci sono libri che non sono soltanto libri: sono veri e propri eventi. “Porsche Racing Moments”, edito da Taschen, è uno di questi. In 356 pagine (un numero a caso?) di grande formato (34 x 41 cm), 5 chilogrammi di carta racchiudono decine e decine di immagini scattate da Rainer W. Schlegelmilch, fotografo tedesco che fa parte del gotha dell’automobilismo, insieme a Bernard Cahier, Louis Klemantaski e pochi altri. Gente abituata a fotografare le auto e i piloti protagonisti dell’età dell’oro dell’automobilismo.

Nel libro c’è un racconto per immagini delle vicende della Porsche nelle principali gare del Mondiale Sport, dal 1963 quasi fino a oggi. Sebring, Le Mans, Nurburgring, Monza, Spa-Francorhamps, Targa Florio: luoghi e gare mitici dell’automobilismo ripresi con una tecnica molto personale. Che siano a colori o in bianco e nero, le sue immagini trascendono la prospettiva e diventano quasi tridimensionali, coinvolgendo il lettore fino a renderlo uno spettatore, quasi a tornare indietro in quei luoghi e quelle situazioni, presenti come i protagonisti, come il fotografo stesso.
Abbiamo avuto la possibilità di fare qualche domanda a Schlegelmilch, sia pure soltanto per e-mail, e non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione.

Il suo libro è un atto di amore verso le competizioni e la Porsche: è nato prima l’interesse per la fotografia o quello per l’automobilismo?
Per la fotografia! Ho iniziato a 14 anni. La passione per le auto è scoccata quando ho preso la patente a 18 anni. Ho unito poi le due cose per caso a 21 anni, quando un amico mi portò a vedere una gara: fu la prima volta per me.
Lei ha vissuto l’età d’oro delle corse, un periodo irripetibile espressione di un mondo molto diverso da oggi: cosa prova rispetto ai cambiamenti anche sociali che sono avvenuti nel frattempo?
Quando cominciai, nel 1962, ero molto vicino alla “famiglia” delle corse, ai giornalisti, ai meccanici e alle persone dei team (tranne quelli della Ferrari) e persino ai piloti. Un team era normalmente composto da circa 10-30 persone, i piloti erano uomini, non ragazzini come oggi. Ricchi o talentuosi, o a volte entrambe le cose. Oggi una scuderia in F1 può essere composta da 1000 persone, di cui la maggior parte lavora in fabbrica, poi tecnici, meccanici, uomini di marketing, addetti stampa, eccetera. A ogni gara ci sono dai 50 ai 100 membri del team in pista. I piloti di oggi imparano il loro lavoro fin da bambini sui kart, poi hanno un percorso guidato che attraverso tre o quattro categorie codificate, se hanno fortuna, arrivano in F1. A volte addirittura prima di prendere la patente, vedi Verstappen. Attraverso la TV, i media, la pubblicità e la copertura mondiale, il Motorsport oggi si identifica con la F1 ed è diventato un business multimiliardario.

Nel suo lavoro oggi contano di più l’occhio e la tecnica o le possibilità offerte da computer e intelligenza artificiale?
Ho avuto la fortuna di poter usare una macchina fotografica da 35 mm con alcuni obiettivi diversi: una focale molto corta, perché all’epoca si stava molto vicino all’azione. Potevo arrivare ovunque, c’erano pochissime restrizioni. Di decennio in decennio, noi fotografi abbiamo dovuto accettare regole di sicurezza sempre più stringenti e distanze sempre più ampie, e abbiamo dovuto combattere contro le restrizioni dei team ai box. Fare buoni ritratti è diventato sempre più difficile: i piloti tengono i caschi chiusi, anche quando sono seduti in macchina ai box, e quando la monoposto è portata dentro al garage, nel giro di pochi secondi uno o due monitor larghi vengono messi davanti al viso del pilota, così non puoi più vederlo. E la tua unica opportunità è aspettare fuori dai box con un pesante obiettivo da 500 mm su un mono piede, per cogliere un momento fortunato per uno scatto. Che differenza rispetto agli anni 60, 70, 80, quando i piloti erano seduti in macchina, fuori dai box, e nessuno ti spingeva via!

Qual era l’approccio dei piloti di F1 alle gare endurance? Erano ricercati dalle squadre soltanto per spingere il più possibile o gli era richiesto anche di gestire la macchina?
In passato, i piloti avevano un contratto con un team. E se quella scuderia costruiva anche delle Sport (come Ferrari, Ford, Matra…), i piloti erano chiamati a guidare anche quelle. Questi piloti erano per lo più i migliori! Ma c’erano anche ottimi piloti nelle gare Turismo, e anche loro erano richiesti per le gare Sport. A volte erano piloti di altissimo livello, tanto da arrivare fino alla F1: gente come Siffert, Elford, Rodriguez, Redman… Detto questo, una gara sulla lunghissima distanza, come Le Mans, richiede altre qualità rispetto a un GP di F1 disputato a tutta velocità.
Schelegelmilch ha avuto un pilota preferito? E un pilota amico più di altri?
Ho sempre avuto dei piloti preferiti: Clark, Ickx, Stewart, Lauda, Villeneuve, Senna… Tra i miei buoni amici di oggi ci sono Jacky Ickx, Jackie Stewart, Emerson Fittipaldi.

La morte nelle corse negli anni 60 era considerata una possibilità inevitabile o c’era spazio per una riflessione?
Gli incidenti e la vicinanza alla morte erano attraenti come in tutti gli sport ad alto rischio. Ma nessuno vuole un incidente mortale. Alla fine degli anni ’90 tutti erano felici che la lotta contro la morte nelle corse sembrasse vinta. Correre senza rischi era impossibile, ma il progresso tecnico aveva avuto successo! Ora ci sono forse meno spettatori, perché gli incidenti non sono mortali, anche se alcuni molto spettacolari?
Relativamente a questo tema, dopo una lunga intervista a Jacky Ickx mi rimase l’impressione che, pur in un contesto di elevata casualità, l’intelligenza dell’uomo potesse avere un influsso sulla sorte del pilota. Quantomeno, aiutare la buona sorte. Cosa ne pensa?
Jacky è una persona meravigliosa. Sa di aver avuto molta fortuna, di non essersi mai fatto male gravemente in un incidente, ed è molto umile quando parla della sua carriera. Ma di sicuro la sua intelligenza ha avuto un ruolo in questo, un cervello che funziona bene, capace di prendere le decisioni giuste al momento giusto. Era un maestro in questo, e la sua esperienza di molti anni di successi è stata la chiave per sopravvivere alle corse automobilistiche e alla Formula 1!
Schlegelmilch aveva un circuito preferito dal punto di vista fotografico?
Assolutamente! Monaco è il migliore in Formula 1. Naturalmente, bisogna accettare le crescenti recinzioni di sicurezza ovunque intorno al percorso, ma gli sfondi, spesso realizzati con un obiettivo grandangolare, sono unici. In 50 anni, le mie foto migliori, in particolare quelle con lo zoom, sono state scattate a Monaco!
Qual era l’umore dei piloti Porsche nel 1969 alle prime esperienze con la 917?
Per anni, i piloti Porsche avevano combattuto con auto da 2000 cc, affidabili ma poco potenti, contro Ferrari e Ford da 3 litri e più. Con la 917 a 12 cilindri, cinque litri, telaio leggerissimo, i piloti avevano all’inizio un mostro con pessime qualità di guida, ma con una potenza e una velocità incredibili. Solo pochi piloti riuscirono a domarla. Ma dopo la prima vittoria a Le Mans nel 1970, la macchina divenne più “morbida”.

Che effetto fece nel mondo delle corse la notizia che Steve McQueen avrebbe realizzato il film Le Mans?
Il film di Steve McQueen era una tipica love-story americana, in questo caso di amore per le corse. Le scene di gara con veri piloti da corsa erano fantastiche e sono state viste da molti spettatori e appassionati in tutto il mondo. La fama del film “Le Mans” ha sconfinato ben oltre il mondo delle corse.
Ci racconta il mondo della Can-Am? Quanto era diverso da quello delle gare europee?
Tipico americano: motori potenti e di grande cubatura, piloti famosi, anche di F1, ricchissimi premi. Porsche ha disputato il campionato per alcuni anni, usando la 917 a cui aveva applicato due turbocompressori! Vinse quasi tutte le gare di fila e due campionati (1972 e 1973, ndr). Quando il regolamento eliminò la sovralimentazione, abbandonò.
Nel libro “Porsche Racing Moments” manca Le Mans 1977. Come mai?
Dopo il 1973 frequentai sempre meno le gare delle Sport Prototipo. In effetti il mio mestiere era la fotografia pubblicitaria e avevo uno studio a Francoforte: avevo seguito tutte queste gare solo per il mio piacere e la mia passione per la fotografia. Nel 1974 la Ferrari non c’era più. La F1 divenne sempre più interessante per gli sponsor e le riviste, quindi iniziai a seguire le sole gare di F1 e poche altre negli anni seguenti e mi persi la 24 Ore del 1977.
Cosa direbbe a un ragazzo che volesse oggi iniziare a frequentare gli autodromi con una macchina fotografica e… uno smartphone?
Mi dispiacerebbe per lui. Se avesse la passione che avevo io a inizio anni ’60, non potrebbe soddisfarla oggi. Oggi le corse sono un mondo completamente diverso: persino il giorno della gara non avrà una reale possibilità di fare ritratti ai piloti o primi piani dei motori. Ha la fortuna di avere 50 o 60 anni in meno, ma io posso dire di aver vissuto molto intensamente il periodo d’oro dell’automobilismo, e mi godo ancora il lavoro di quegli anni. Le macchine fotografiche digitali rendono la fotografia più facile e più economica, ma non migliore. E una fotocamera per smartphone è troppo lenta e non è facile da gestire… Però può consolarsi con le automobili! La mia, che possiedo da 7 anni, è la migliore Porsche che abbia mai avuto: una 911 GTS Targa! E spero che non sia l’ultima…!

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