
Testo di Federico Lanfranchi e fotografie di Luca Danilo Orsi
Alla fine del Primo Conflitto Mondiale il prezzo del carburante divenne insostenibile: un litro di benzina si pagava circa due lire, una cifra che rapportata a oggi significa più di due euro al litro. Aggiungiamoci gli strascichi della guerra e la povertà generalizzata dopo il conflitto e ci si spiega come mai cominciarono ad apparire vetturette piccole e leggere, pensate per consumare il meno possibile. Come esempio, nel 1920, all’ombra della Tour Eiffel, nasceva la categoria delle cyclecar, fenomeno tipicamente francese (e anche inglese) che introduceva una prima idea di motorizzazione di massa. Molti artigiani cominciarono infatti ad assemblare mezzi talvolta stravaganti, con telai autocostruiti e motori che in certi casi erano derivati addirittura dal mondo motociclistico.
In questo panorama si affacciò l’Amilcar, nata dall’incontro dei due tecnici André Morel e Edmond Moyet con i due uomini d’affari francesi Émile Akar e Joseph Lamy. L’ingegner Moyet, infatti, aveva realizzato il progetto di una piccola vettura che subito entusiasmò i due finanziatori: il 29 settembre 1921 nasceva così a Parigi la società Amilcar. Al Salon de l’Automobile au Gran Palais dello stesso anno vennero esposti i primi due esemplari di Amilcar, che erano vetturette biposto con carrozzeria spider dal sapore molto racing, tanto è vero che consentirono a Morel di vincere già alla sua prima apparizione sul campo di gara.

Purtroppo, la categoria cyclecar venne bistrattata dalla stampa di quel periodo, che dedicava poco spazio a questo genere di mezzi, che sembravano giocattoli per bambini cresciuti e i campionati sportivi a loro dedicati erano citati appena sulle colonne dei quotidiani, anche se vi correvano nomi destinati poi a diventare altisonanti nel motorsport.
In Italia, il nome del marchio francese cominciò a circolare nel 1923, quando il pioniere dell’automobilismo e reduce di guerra Bartolomeo Costantini fece arrivare a Milano la piccola e sconosciuta Amilcar CS per partecipare alla Coppa delle Alpi: dopo 3000 massacranti chilometri di strade di montagna percorse a tutta velocità, Costantini e la sua vettura sconfissero tutti gli avversari, ottenendo una vittoria clamorosa. Da quel momento l’interesse per l’Amilcar cominciò a crescere, tanto da convincere il preparatore milanese Eugenio Silvani a iniziare la commercializzazione del marchio nel nostro Paese, anche con il favore di politiche commerciali che avevano aperto canali privilegiati per prodotti francesi.

Così, visto il successo riscosso dall’importatore, la Casa madre decise di seguire l’esempio delle connazionali Peugeot e Citroën e creò una filiale nel nostro Paese, con sede legale a Roma, direzione generale a Milano presso l’officina di Silvani e sede produttiva in uno stabilimento alle porte di Lecco. Sfogliando le riviste Aci del periodo, si scopre che le Amilcar erano definite “le regine delle utilitarie”, proprio per la loro indole sportiva nonostante le dimensioni ridotte.
La vettura immortalata in queste foto è un esemplare di Cgs (Cyclecar Gran Sport) che usciva proprio dallo stabilimento lecchese e veniva chiamata Tipo 7 CV, per distinguerla dalle Cgs prodotte in altre sedi. Queste le caratteristiche principali: 1074 litri, 33 cv e 450 kg. E un sedile posteriore all’interno della coda (il cosiddetto “posto della suocera”), che si aggiungeva ai due in abitacolo, rendeva la vettura versatile, nonostante le dimensioni generali e la carrozzeria aperta. La vettura di questo servizio, con telaio 274, uscì dal cancello dello stabilimento italiano nel 1928 alla volta di Arezzo, dove ad attenderla presso la concessionaria di zona c’era l’avvocato Ascanio Cherici. Amante delle vetture sportive, il nostro uomo di legge non disdegnava di scorrazzare per le campagne aretine, ma nel 1937 cedette la Cgs al meccanico Otello Beucci, meglio conosciuto come “Tarzan” sui campi di gara.

Questa Amilcar cominciò così a correre e, per un paio d’anni, solcò i campi di gara toscani e nazionali. Ma allo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale, le attività sportive vennero sospese e della “nostra” Cgs si persero le tracce. Nei primi anni 60 però venne ritrovata in modo fortunoso, perché era stata “murata” in un capanno. In tempo di guerra, infatti, molti proprietari usavano “cementare” le proprie automobili dietro un muro per sottrarle alla “Campagna per il ferro alla Patria”, il rastrellamento fascista che mirava a recuperare materiale ferroso da destinare alla produzione bellica.
La Cgs targata FI33404 fu rinvenuta da un demolitore della zona di Firenze, il quale la tenne per qualche tempo nel suo piazzale prima di cederla ad un appassionato nel 1965, anno in cui cominciò il primo restauro totale di questa vetturetta ormai fiaccata dagli avvenimenti. Ma le avventure della Tipo 7 CV non finiscono qui, perché proprio durante i lavori di rimessa a nuovo, Firenze venne sommersa dalle acque dell’Arno in conseguenza dell’alluvione del novembre del 1966. In quel periodo l’autotelaio della Cgs si trovava all’asciutto presso un’officina meccanica fuori città, ma la carrozzeria in alluminio era in lavorazione in un’altra sede vicina al fiume che venne sommersa dall’acqua. Ma una volta ripulita dal fango, venne riportata agli antichi splendori e il restauro poté essere completato.
Oggi l’Amilcar Cgs Tipo 7 CV è custodita da Giorgio Prandina, un ragazzone di un metro e 90 che per guidarla deve fare le contorsioni. “Per poterci salire ho dovuto far modificare la seduta, altrimenti mai avrei potuto pensare di entrare in abitacolo” ci racconta Giorgio. Ci fermiamo a osservare la vettura in tutta la sua bellezza: sembra una piccola Bugatti e, in effetti, le Amilcar erano proprio soprannominate così. I parafanghi sono di tipo motociclistico e il parabrezza è sdoppiato, come si usava sulle vetture sportive degli anni 20, che oggi sono classificate come Vintage. Osservando l’abitacolo angusto, in effetti, viene da chiedersi come possano entrarci persone “fuori misura”, viste le dimensioni claustrofobiche.

Però veniamo rapiti dalla bellezza del cruscotto che, costruito con un pannello di alluminio spazzolato e una manciata di strumenti analogici, è in condizioni semplicemente perfette nonostante abbia quasi un secolo di vita. Per avviare il motore bisogna essere abili e capaci, perché occorre “giocare” con il comando per la regolazione dell’anticipo, montato sul volante, e con la leva dell’aria: devono muoversi in sincronia, pena il fallimento della messa in moto per l’imbrattamento delle candele. Ma se si agisce nel modo giusto il quattro cilindri francese, alimentato da un carburatore Solex, si mette in moto sornione e comincia la sua sinfonia.
La prima marcia entra con un sonoro clac, si solleva la frizione e si parte. Però bisogna prendere confidenza con l’acceleratore, montato al centro della pedaliera e non a destra, come si usava fino agli anni 30. E, per chi non lo sapesse, l’espressione “andare a chiodo”, per indicare andature non propriamente rispettose dei limiti di velocità, deriva proprio dalla forma dell’acceleratore, che era una sorta di perno posto fra frizione e freno. Una volta presa confidenza, la Cgs si destreggia veloce tra le curve che incontriamo e i freni a tamburo montati su tutte le ruote ‒ una soluzione non così scontata sulle auto anni 20 ‒ regalano decelerazioni sicure. Guidare una vettura anteguerra è un’esperienza unica: abituati come siamo alle vetture filtrate da elettronica e automatismi, mettersi al volante di una macchina così analogica è un’emozione da brivido e da ghigno sotto i baffi.

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