
Fotografie di Massimiliano Serra
Scattante in ogni centimetro, compatta, magnetica. Padrona assoluta della scena. Insieme presenza da museo e reminiscenza di rally feroci. Quando si incontra una Strato’s (con il vezzo del segno grafico ripetuto sia sulla compita targhetta posteriore, sia sul ben più “bertoniano” logo laterale) si percepisce un carisma prepotente e inconsueto.
Perché per un verso pare si sia materializzato un capolavoro studiato mille volte, metabolizzato da bambini sotto forma di modellino adorato, straniante come un’opera protagonista dei libri di storia dell’arte e poi ammirata dal vivo, sorprendente come una gemma perduta del design finalmente riscoperta nelle sale della Triennale di Milano.
D’altro canto, però, ogni soluzione evoca una ricerca tecnica e una riuscita agonistica che possiedono pochi eguali nella storia dell’automobile, proiettando lo scenografico cuneo di queste righe lontanissimo da qualsivoglia idea di estetica minimalista e intellettuale come usa oggi. Tutt’altro che un’icona (termine altrettanto disgraziatamente attuale) confezionata a tavolino.

Semmai, un apostrofo azzurro fra due sportellate di Sergio Munari, in pieno Campionato del Mondo. Benché l’esemplare delle fotografie non abbia mai corso, anzi. Da sempre legata a una famiglia importante della Carrozzeria italiana, questa torinese a targa quadra riflette la propria storia nelle superfici intonse. Niente impiego sportivo, nessuna digressione su nastri d’asfalto meno che civili, solo cure certosine e il discreto ruolo d’accompagnatrice per Alfredo Stola e la moglie Maria Paola, già a partire dal loro primo incontro nel 1979.
Se il modello è fuori dall’ordinario, la singola vettura si rivela dunque… sì, stratosferica. Il gioco di parole è gravato da mezzo secolo d’età? Certo, si sa. Ma se funzionava allora, oggi resta talmente attuale che vale la pena conservarlo, proprio come certe automobili.
Del resto, la storia aveva preso l’avvio in modo pirotecnico, col celeberrimo prototipo Strato’s Zero che nel 1970, sotto gli echi ancora non sopiti di una space age cui forse si deve il nome, esplose al Salone di Torino con le insegne di Bertone e contenuti progettuali senza pari, frutto delle sapienza di Marcello Gandini (che peraltro abbiamo intervistato, insieme ad altri monumenti del design italiano dell’epoca, a pagina 82).
Il propulsore, così corto da risultare centrale longitudinale, si risolveva in un timorato V4 di origine Fulvia che spariva sotto l’avanguardia del cofano a triangolo incernierato lateralmente. Secondo la narrazione più accreditata, quel prototipo che sembrava concepito da creature di un universo parallelo colpì oltremodo Pier Ugo Gobbato, all’epoca Direttore generale della Lancia, e Cesare Fiorio, a capo del Reparto corse.
L’intenzione di trarne una vettura da competizione, assemblata in 400 unità per l’omologazione nel Gruppo 4, specifica e lontana da qualunque prodotto in catena di montaggio, cominciava a plasmarsi nelle due menti di dirigenti e appassionati, nonostante gli sconquassati bilanci della Casa acquisita dalla Fiat nel 1969. La sfida d’immagine si profilava troppo succulenta.
Nel gennaio del 1971 si narra che Nuccio Bertone in persona condusse la lama rasoterra della concept presso gli storici uffici di via Caroglio, probabilmente seguito da un tappeto d’occhi sgranati. Il 21 febbraio successivo fu deliberato l’inizio dei lavori e già nell’autunno successivo sbocciò una proposta in alluminio assai simile alla Strato’s HF definitiva, poi affinata al Salone di Torino 1972 e destinata alla produzione, con un vestito in fibra di vetro, dall’inizio del 73. E il motore stavolta giungeva giusto da Maranello, figlio della Dino 246.
Difficile definire il numero preciso di gioielli sfornati fino al 78, comunque circa 500, ma già il primo ottobre 1974 si raggiunsero i 400 necessari per iniziare ad apostrofare le avversarie, schiaffeggiandole fra l’altro con le vittorie nei mondiali rally 1974, 75 e 76. Nel frattempo, gli esemplari stradali venivano forzosamente acquistati dai concessionari e poi rivenduti, non sempre con facilità.
Qui s’innesta l’eccezionalità della vettura protagonista di questo servizio, peraltro già immortalata in volumi di prestigio sulla Casa di Chivasso. I documenti raccontano di una prima immatricolazione datata 4 ottobre 1974, proprio nei giorni cruciali dell’omologazione, con Lancia Automobili Spa quale intestataria. Poi, una rapida esperienza fra le mani dei giornalisti durante il Rallye di Montecarlo e, il 6 marzo 75, il passaggio di proprietà a favore di un certo Secondo Piattino, guardacaso possessore di un autosalone.

Meno di due settimane dopo, il 20 marzo, l’acquisto da parte di Francesco Stola, padre di Alfredo. Nel complesso, poco più di cinque mesi per migrare dal ventre dell’azienda che l’aveva immaginata e prodotta alle attenzioni di una stirpe di cultori del motorismo, da allora suoi gelosi custodi: davvero complicato scovare di meglio.
La targa TO L7, di poco successiva alla L6 incisa insieme alla livrea Alitalia nei ricordi vittoriosi di quella stagione, si staglia sull’azzurro a testimonianza di un’intera epoca. “Non riesco a esprimere con le parole cosa significasse una Strato’s HF quando ero ragazzino” commenta oggi Alfredo, accendendosi nei ricordi. “Se addirittura una Lamborghini o una Ferrari, al confronto, sembravano edulcorate per l’uso stradale, questa rappresentava la vera auto da corsa, pura. Incantava anche i proprietari di supercar, in un periodo in cui il mezzo meccanico veniva venerato e desiderato molto più di oggi”.
Dopo meno di tre anni e circa 9000 km di sensazioni che miscelavano le più raffinate capacità dell’industria italiana, il 7 febbraio 1978 accadde purtroppo un evento irreparabile: Francesco finì vittima della pratica criminale e allora consueta dei sequestri, dalle cui barbare maglie non fece più ritorno.

Il figlio s’incaricò progressivamente della gestione della Stola Spa, polo di eccelsa professionalità nella carrozzeria, riferimento per la realizzazione dei modelli definitivi di molte Fiat e poi costruttore di prototipi (fra cui la S81 del 2000 che omaggiava proprio la Lancia con l’apostrofo in mezzo, sempre a opera di Gandini).
Alfredo divenne così, neppur ventenne, ufficialmente proprietario dello straordinario esemplare che già aveva guidato di nascosto senza patente, considerandolo alla stregua della sua prima infatuazione su ruote, e che contribuì ad avvicinarlo all’amore vero, quello per la futura moglie Maria Paola. Da allora il contachilometri non ha faticato molto: ora segna quota 19.800, forse per eccesso.
Con l’aggiunta dei due spoiler posteriori, dei quali era priva, come diverse sorelle ritratte nelle immagini ufficiali del tempo, la Strato’s assunse la veste che le è propria oggi. Nel tempo ha ricevuto solo minimi interventi di manutenzione, accanto a quattro cerchi Campagnolo per ovviare alle fioriture di ruggine del magnesio.

Abbaglia di fascino e, girandole intorno, snocciola in sequenza peculiarità quali la cifra 290 punzonata ovunque per le componenti Bertone, il numero di telaio che comincia con 829 come invece era d’uso in Lancia, la scritta Dino seminascosta sul sei cilindri. Il colpo di grazia piove infine da uno degli abitacoli più sorprendenti di sempre, stretto verso l’alto, ma così accogliente in basso da ospitare due caschi da gara nei pannelli portiera. Nell’insieme, un viaggio in un’altra galassia. O un apostrofo azzurro fra le parole “l’eccellenza”.
In edicola il nuovo Youngclassic di dicembre-gennaio con in copertina tre Alfa rosse dotate del mitico V6 Busso
Quest'anno il Tunnel del Monte Bianco ha compiuto 60 anni: ecco le sfide ingegneristiche necessarie alla sua realizzazione