
Testo Silvio Jr. Suppa, Fotografie Alessio Migliorini e Arianna Romagnoli
Isetta Fraschini. Minuscola, esigua, un embrione di automobile. Non a caso fu immediatamente accreditata nel novero delle Bubble Car, curiosa denominazione tipologica che quasi rimandava all’idea di micro-capsule piovute da un’altra atmosfera. L’Isetta ha calamitato sguardi e opinioni per 70 anni. Adesso è il momento di provare a capirla.
Anche perché, sebbene non derivasse da uno scampolo di navicella spaziale, vantava origini inaspettatamente radicate nell’ambito aeronautico. In un’Italia impigliata negli ultimi traumi di un dopoguerra non ancora soppiantato dal boom economico, ai primi vagiti degli anni 50, pochissimi com’è noto potevano permettersi una vettura privata. Per la maggioranza, il brusio delle Vespa costituiva l’unica alternativa alla corriera o alla più essenziale bicicletta, protagonista pochi anni prima (1948) di una celebre pellicola neorealista in cui Vittorio De Sica la poneva al centro di un furto.
Nel modesto bestiario della mobilità, la Topolino squittiva troppo lontana dal portafoglio di molti. Nel frattempo un imprenditore d’esperienza, Renzo Rivolta, rifletteva sugli interstizi di mercato in cui infilare un prodotto più abbordabile. Dal 1939 deteneva un’azienda d’impianti di refrigerazione, la Isothermos, subentrata a una precedente attività da importatore di legname pregiato dal Sudamerica. Nel 1947 non aveva esitato a lanciarsi in una produzione di motociclette non troppo esose, ma di meccanica discretamente raffinata, che nel 1952 culminò nella Iso 200, destinata a un consistente successo di vendite.
Perché non approfittare di quella base per imbastire una sorta di “motociclo carenato” come già accadeva in diversi angoli d’Europa, tipicamente in Germania, con un esempio su tutti nella famosa Messerschmitt KR200? Mancava però un indirizzo progettuale. Fu elaborato da Ermenegildo Preti, all’epoca giovane ingegnere aeronautico, che si affidò a ispirazioni legate all’universo dei velivoli non già alla ricerca di improbabili ricercatezze, ma in nome di un unico principio: la massima leggerezza e semplificazione, tipica delle sperimentazioni militari su cui aveva lavorato durante la guerra.

In particolare, alcune proposte per il trasporto di viveri e materiali dotate di un’apertura di carico all’anteriore. Nacque così la soluzione in assoluto più nota e caratterizzante dell’Isetta: l’onnicomprensivo portellone che sostanzialmente fagocita il muso e, accanto alle comprensibili critiche in termini di sicurezza, suscitò più frivoli e ingenerosi paragoni con… i frigoriferi dell’epoca (anche perché, agli albori delle strategie di marketing, nessuno immaginò di evitare il bianco quale colore di lancio).
L’idea rispondeva in realtà a una logica di “tratto minimo” che per tanti versi avrebbe costruito la fortuna del design italiano degli anni a venire. Bisognava proprio prevedere un’apertura per passeggero, quando ne sarebbe bastata una per tutti? La produzione delle fiancate si semplificava enormemente, riducendosi a un foglio d’acciaio da 8 decimi di centimetro che cingeva i passeggeri in un abbraccio appena addolcito, all’interno, da un sottile rivestimento in skai.

Rispetto allo schiaffo delle intemperie e alla paura di cadute cui ci si sottoponeva su alcuni apprezzatissimi strumenti a due ruote (come il Guzzi Galletto), l’Isetta diventava in ogni caso un nido di accoglienza. La carrozzeria veniva assemblata intorno a un traliccio tubolare portante, senza padiglione metallico e con una giostra di finestrature in perspex perfette per tagliare i costi della lamiera, fra le quali un lunotto che sembrava la parodia dei parabrezza panoramici americani. Solo il cristallo anteriore si rivelava “vero”.
La stampa chiacchierò di “vetturetta marziana”, sottolineandone l’effetto scenico in tempi di vetri piatti, invece tutta quella bulbosa trasparenza serviva a risparmiare… Proprio come certe lampade di Achille Castiglioni, solo per citare un maestro della semplificazione, che trovano nei pochi componenti la ragione del loro impatto. All’apice dell’essenzialità (ben ragionata) si attingeva però nella meccanica.
Nel luglio 1952, una sessione di collaudi con un prototipo a tre ruote ne palesò l’esplosiva pericolosità, soprattutto nel caso in cui la deflagrazione riguardasse un pneumatico, l’unico posteriore. Come ovviare senza troppe modifiche? Semplice, collocando una seconda ruota ad appena 50 cm dalla prima, forse la carreggiata più ridotta di sempre, per rinunciare al differenziale e sfruttare l’ultimo tratto della trasmissione finale (a catena come sulle moto) quale braccio oscillante della sospensione.

All’avantreno, elementi elastici in gomma (sei anni prima della Mini) e ammortizzatori inerziali perché i passaruota non si appropriassero del preziosissimo volume destinato ai… ben tre passeggeri, papà, mamma e un bambino. Perfino il motore si aggrappava con protervia alle logiche del “quanto basta”, completo di miscelatore automatico ma progettato intorno a un cilindro con una sola camera di scoppio e due pistoni a V, così da migliorare l’erogazione senza complicare architettura e manovellismo.
Il bicilindrico della futura Fiat Nuova 500 (presentata nel 1957) sarebbe parso un purosangue al confronto… come pachidermica si sarebbe dimostrata la carrozzeria: i 297 cm di lunghezza della torinese avrebbero sopravanzato di oltre 70 gli appena 225 dell’Isetta! A titolo di paragone, una Smart Fortwo del 1998 totalizzava 250 centimetri, mentre la generazione in vendita di questi tempi si spinge a 270 centimetri.
La presentazione si tenne al Salone di Torino dell’aprile 53, in un’Italia priva della Rai (1954), dell’Autostrade del Sole (1964) e, soprattutto, di inediti colpi di teatro di Corso Marconi (la 600 avrebbe debuttato solo nel 55). Nonostante la cilindrata inchiodata sotto il quarto di litro, la legge concedeva un’omologazione del tutto automobilistica, con targa tradizionale, nessuna limitazione di velocità o circolazione e guida dai 18 anni con regolare patente.

Dunque, nulla impediva di tentare la promozione sportiva. Nel 1954 l’auto fu iscritta alla 1000 Miglia in sette esemplari: ben cinque, di cui tre di piloti Iso e due di privati, giunsero al traguardo. Il primo classificato, guidato dalla coppia Cipolla-Brioschi, tornò a Brescia 30° assoluto alla velocità media di 72 km/h.

Un altro poker di unità, inoltre, si aggiudicò i primi quattro posti assoluti della classifica dell’indice di prestazione. L’impresa si ripeté, con ovvie variazioni, nel 55: Mario Cipolla, senza copilota, giunse al traguardo in 20 ore, 8’ e 9’’, quasi due ore in meno rispetto all’edizione precedente. Uno scroscio di inatteso successo, che riconobbe alla microscopica Iso la sua natura assai meno artigianale rispetto ad altre coeve bubble, invero talvolta molto improvvisate.
Nonostante tutto, però, il successo non arrise a questa simpatica creatura metà auto, metà moto. L’imminente irruenza delle piccole Fiat, forse una certa sensazione di precarietà legata a quel muso sempre pronto a spalancarsi in una bocca profferta e, soprattutto, l’impennata dell’economia della Penisola nel quinquennio 1958-63 (il notorio boom) travolsero le velleità del commendator Rivolta. Il quale, dopo aver ceduto il progetto a Bmw già all’inizio del 55, si consolò amabilmente con due capolavori come le Iso Grifo e GT 2+2 prima di abbandonare l’esistenza terrena nel 1966.

Oggi le forme dell’Isetta, rilette alla luce della moda e allontanate dall’originario minimalismo costruttivo come accadde per la 500 nel 2007, animano un quadriciclo elettrico guidabile a 16 anni e incautamente chiamato Microlino (troppo simile a Mivalino, nome italiano della Messerschmitt citata all’inizio). Ma una prova di questo esemplare del 54, si vocifera appartenuto alla signora Pirelli, resta d’obbligo.
Per apprezzare l’ingegno di un tempo: visibilità perfetta, discreto brio urbano, cambio a sinistra più “facile” del previsto. Sorprende poi la relativa stabilità, almeno se si conoscono gli adrenalinici scuotimenti dei tre ruote Piaggio e di altri mezzi simili. Prima di spegnere il motore, il proprietario sottolinea come questa buffa, rumorosa “bolla” possa essere iscritta alla 1000 Miglia storica. E se l’anno prossimo…?
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