Testo Marco Visani, fotografie Carrsturdio
C’era una volta la Torino definita One Company Town, perché la città si identificava con un’unica azienda: la Fiat. Ma c’è stata un’epoca, più lontana, nella quale la prima capitale d’Italia era un arcipelago di fabbriche. Che, con quella Company che poco alla volta le ha spazzate via tutte, avevano in comune il prodotto: nel 1906 erano la bellezza di 26 le insegne che costruivano automobili all’ombra della Mole.
Tra queste la Scat, che quantomeno nelle due lettere finali che ne componevano l’acronimo (stanno per: Automobili Torino) occhieggiava alla Fiat medesima. Ma mentre quest’ultima, all’inizio del suo nome e del suo percorso, sembrava già avere chiarissima una visione in grande (Fabbrica Italiana), la Scat si limitava a spiegare di essere la Società Ceirano.
Sempre in quei tempi remoti, questa famiglia di pionieri industriali era molto più importante e conosciuta degli Agnelli. Per dire: senza di loro non sarebbe nemmeno mai nata la Fiat, il cui primo modello – la 3 ½ HP del 1899 – altro non era che il rebadging di una Ceirano, la Welleyes.
Giovanni Battista, Giovanni, Matteo ed Ernesto Ceirano agivano sia in comune sia isolatamente, spesso l’uno contro l’altro, in un dedalo di aziende e sigle, per ricostruire la genesi e l’evoluzione delle quali servirebbe lo spazio di un libro. E nemmeno dei più snelli. Concentrandoci sul capitolo Scat di questa immaginaria enciclopedia dei Ceirano e della loro House of Cards automobilistica, sappiamo che viene fondata nel 1906 da Giovanni e che si impone per la qualità e l’avanguardia delle sue creazioni: motori a quattro cilindri biblocco (alcuni addirittura con asse a camme in testa), trasmissione ad albero, cambio a quattro marce.
Il marchio si fa anche un certo nome nelle corse, che al tempo sono la conditio sine qua non del nascente marketing, anche se nessuno – tranne inglesi e americani – ancora usa questo termine. Vince la Targa Florio nel 1911, nel 1912 e nel 1914. In questo stesso anno lo stabilimento lascia la sede originaria di via Madama Cristina, dove però rimane l’ufficio commerciale: è la stessa strada in cui la Fiat ha una sede distaccata per la costruzione delle carrozzerie (gli incroci non finiscono mai) e approda in corso Francia, all’angolo con corso Lecce.
Impiega, in quegli anni, ben 600 addetti: va bene che l’automazione è di là da venire, dunque la manualità è tutto, ma sono numeri che danno l’idea dell’importanza dell’azienda. Come ogni fabbrica di automobili che si rispetti, anche la Scat esibisce i suoi prodotti alla nona edizione dell’“Esposizione Internazionale d’Automobili”: così al tempo si chiama il Salone di Torino, altro asset comunicativo che strizza l’occhio, in particolare, ai clienti meno sensibili all’ebbrezza delle corse.
All’edizione che va in scena dal 26 aprile all’11 maggio 1913 porta un campionario della sua produzione: la 15-20 HP, la 25-35 HP e la 60-75 HP Tipo Corsa. Del modello mediano, che è poi l’ammiraglia della gamma, viene esposto un telaio carrozzato landaulet-limousine che in realtà è già stato venduto. Lo ha prenotato un gentleman calabrese, il conte Francesco De Leonardis di Radicena, al quale la Scat ha chiesto la cortesia di poter trattenere la sua vettura a Torino in modo da esporla al Salone.
Finita la fiera, il landò viene caricato su un treno e spedito in quel di Taurianova. Il nobile signore era un tipo che doveva intendersene di meccanica, per scegliere una Scat. Al tempo era quello che oggi chiameremmo un marchio premium: piena di sofisticazioni tecnologiche a iniziare dall’avviamento automatico ad aria compressa, che semplificava le tradizionali operazioni di messa in moto, allora alquanto complicate, e serviva anche come sistema di bordo per il gonfiaggio dei pneumatici (novità doppiamente straordinaria, considerata la frequenza delle forature sulle strade di allora).
Certo, De Leonardis doveva fidarsi sino a un certo punto di questo marchingegno, visto che, tra le tante applicazioni speciali che richiese alla fabbrica, ci fu anche una ruota di scorta supplementare sul portapacchi, elemento che visto con gli occhi di chi ha vissuto il dopoguerra fa tanto “ferragosto in 600”.
Quelli erano altri tempi. E altri luoghi, nei quali il brigantaggio non era una leggenda, bensì una realtà quotidiana. Prova ne sono i due foderi per fucili fissati sul predellino lato guida: le armi non servivano per andare a caccia, ma per essere ragionevolmente certi di portare a casa la pelle una volta che si aveva l’idea rischiosa di andarsi a fare un giro in macchina.
La 25-35 HP rende fedele servizio al conte e alla sua famiglia per una quantità imprecisabile di decenni, senza mai cambiare proprietà, prima di essere messa al riparo dalle intemperie in una rimessa. Una decina di anni fa un amico toscano ne segnala l’esistenza a Corrado Lopresto, che la fa acquistare. Alcune ricerche, effettuate anche grazie al Centro di Documentazione del Mauto, fanno quadrare il cerchio.
Questa Scat, con châssis 1550, è esattamente la stessa esposta al Salone del 1913. Proprio questa caratteristica, infatti, è una delle condizioni che una vettura deve rispettare per essere seguita, acquistata e curata da Lopresto, in alternativa all’essere la prima o l’ultima costruita o un pezzo unico. Ma la fortuna (che non è affatto cieca), oltre a quest’aura di esclusività, ha fornito a Lopresto anche tutta, ma proprio tutta la documentazione dell’epoca: dal contratto di vendita a quella famosa lettera del prestito per esporre la macchina in fiera.
Dire che il libretto è quello originale e idem dicasi per la targa – di quelle pre-provinciali, con la numerazione al posto della sigla e il fondo bianco – pare, a questo punto, persino banale (anche se, vi assicuriamo, non lo è affatto). Perfezionato l’acquisto, arriva il bello: la macchina va restaurata. È il momento in cui ogni collezionista inizia davvero a divertirsi. Per Corrado, poi, diventa un doppio invito a nozze visto che la Scat è, come direbbero i francesi, dans son jus.
Che significa: conservata, con tutte le complicazioni del caso, visto che parliamo di un’automobile ultrasecolare che, per di più, non viene messa in strada chissà da quanto. L’altra regola aurea della Lopresto Collection è evitare l’over restauration. Quindi: sistemiamola sì, ma guai a disperdere un solo bullone dei suoi per cambiarlo con uno più moderno per la sola ragione che serra meglio. “Mentre la meccanica è stata curata con il consueto know how dai fratelli Colombo”, ci spiega Corrado Lopresto, “per la carrozzeria l’approccio si è rivelato molto più critico, visto che il mantenimento dell’originalità non andava d’accordo con la necessità di asportare comunque la patina di polvere incrostata negli anni sulla lamiera senza far danni con acidi o altri prodotti potenzialmente aggressivi”.
Da qui l’idea di rivolgersi a una persona che nel recupero conservativo di opere d’arte (e non è eccessivo qualificare come tale una vettura del 1913) è maestra: l’operatrice dei Beni Culturali Giulia Di Lecce. Che, dopo alcuni tentativi, ha trovato la sostanza oleosa giusta per ridare alla vernice la corretta brillantezza (che non significa affatto luccichio) senza scolorire o modificare niente. Ed è appunto qui la chiave di questo restauro, dietro al quale si annida sempre la creatività di Lopresto: risolvere problemi talora molto complessi non fermandosi alla solita liturgia degli specialisti abituali, ma individuando tecniche e soluzioni alle quali normalmente non si pensa.
È stata sempre la restauratrice d’arte a ricostruire qualche filetto sui fianchi messo a dura prova dallo scorrere del tempo; anche tutti gli elementi di finizione, esterni e interni, sono rigorosamente gli stessi montati dagli operai della Scat nella primavera del 1913. Insomma: Best in Class a Villa d’Este nel 2018, la sontuosa torinese ha così messo a dura prova i giudici. “Faticavano a credere che fosse realmente tutto d’origine, l’auto come i documenti: pensavano che qualcosa di riprodotto ci dovesse essere. E invece… ”.
Così oggi Corrado ricorda la sua partecipazione al concorso d’eleganza più celebre d’Italia e d’Europa: un “sospetto”, quello della giuria, che, lungi dall’essere una diminutio, diventa paradossalmente la più soddisfacente certificazione dell’eccellenza del lavoro svolto. Quanto infine alla Scat, per chi volesse sapere com’è finita, durante la Grande Guerra si dedicò a camion militari e alla costruzione di motori da aviazione su licenza Hispano-Suiza.
Nel 1918 il fondatore lasciò l’azienda e aprì, l’anno dopo, la Giovanni Ceirano. Ad agosto 1923 riacquistò la vecchia azienda e la fuse con la nuova, assorbendo la Scat nel giro di quattro mesi. Ma l’assemblea della Scat impugnò la cessione e le vetture vennero vendute come Scat-Ceirano. Nel 1929 cessò la produzione delle vetture e l’Azienda si ridusse a una sussidiaria della Fiat, ma per la costruzione di camion. Nel 1932, infine, avvennero la liquidazione e l’incorporazione nella Spa. Oggi di Scat ne sono rimaste pochissime. E tra queste poche, una che sembra uscita ieri dal Salone di Torino. Adesso sapete anche il perché.
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