Testo di Saverio Villa. Fotografie di Carlo di Giusto
Le dimensioni contano eccome e questo vale in tutti i sensi. La Porsche 911 è stata avvistata per la prima volta al Salone di Francoforte nel settembre del 1963, ma ha cominciato a essere prodotta in serie nel 1964. La versione d’origine montava un 2 litri boxer in versione da 130 cv che, con neanche 1100 kg (a vuoto) da portarsi appresso, era più che sufficiente per fare i fuochi d’artificio. Però, si sa, l’appetito vien mangiando e la potenza non è mai abbastanza. Dimenticate per un attimo che le 911 di oggi arrivano a 650 cv, perché quelli erano altri tempi. Considerate piuttosto che già a “quota 130” la 911 d’esordio eguagliava la cavalleria delle più performanti tra le precedenti 356. Però serviva dell’altro. Così, già nel 1966 con vista sulla produzione del 1967, la Porsche presentò la 911 Sport. Più semplicemente S.
La cilindrata era la stessa della 911 standard, ma la potenza passava da 130 cv a 6100 giri a 160 cv raggiunti 500 giri più su. Aumentava un po’ anche la coppia, ma in maniera meno altisonante: da 174 Nm a 4600 giri a 179 Nm a 5200 giri. Il tutto grazie soprattutto all’aumento del rapporto di compressione da 9 a 9,8:1, ad alberi a camme modificati e a valvole di aspirazione e scarico ingrandite (con molle doppie per far fronte all’aumento di regime). E con una serie di altri interventi di dettaglio, come i cilindri in Biral (cioè in ghisa all’interno di una camicia fusa in alluminio), le bielle in acciaio fucinato e nitrurato e i pistoni in metallo leggero fucinato. Mentre il comparto delle sospensioni si evolveva con ammortizzatori Koni e barre stabilizzatrici anteriori e posteriori, mentre i dischi pieni della 911 standard erano sostituiti con altri autoventilanti e di dimensioni più generose.
Ma non solo. Grazie a numerose altre “limature”, a cominciare dall’adozione per la prima volta dei cerchi in lega Fuchs (fucinati), il peso si riduceva di 50 kg, scendendo da 1080 a 1030 kg. Va da sé che tutto questo valeva un bel po’ di prestazioni in più: la velocità massima ufficiale cresceva da 200 a 225 km/h, mentre per passare da 0 a 100 km/h bastavano 7,6 secondi anziché 9,1. C’era di che leccarsi i baffi. La Porsche lo sapeva bene e, anticipando un approccio che poi si è ben radicato nel tempo, tutto questo lo fece pagare piuttosto caro: al momento del lancio la prima 911 S Coupé costava 24.480 marchi, cioè quasi il 40% in più rispetto alla Coupé normale.
Ma l’aumento prestazionale, che rendeva la 911 S decisamente veloce e divertente, sottolineò in modo ancora più impietoso i limiti dell’auto legati al baricentro così arretrato, conseguente al motore posizionato dietro l’asse posteriore, e alle sospensioni con barre di torsione al posto delle molle elicoidali. Ovviamente di intervenire radicalmente su questi due aspetti non se ne parlava neanche – dopotutto stiamo parlando di tecnici tedeschi – e così alla Porsche scelsero una via alternativa e non necessariamente meno complicata: aumentare il passo in modo da ammorbidire le reazioni tipicamente violente della 911, specialmente nel passaggio dal sottosterzo al sovrasterzo, che metteva a dura prova anche le capacità dei piloti più in gamba. Così la quota in questione (non solo per la S ma anche per la 911 meno potente) alla fine del 1968 passò da 2211 a 2268 mm. E la Porsche ritenne che gli effetti fossero così soddisfacenti da lasciarla pressoché immutata addirittura fino al 1997, quando fu presentata la 911 serie 996, la prima raffreddata a liquido. In conseguenza di questa modifica vennero addirittura soppresse le due zavorre da 11 kg ciascuna che in origine venivano montate nel muso delle 911 per dare un po’ più di consistenza all’avantreno.
I gusti son gusti, specialmente quando si entra nella dimensione estetica, ma per chi scrive (e non solo) quei 57 millimetri in più nella vista laterale, che comunque non è mai stata tra gli elementi premianti delle prime 911, si percepiscono perché danno a tutto il profilo un equilibrio visivo migliore. Però il mondo del collezionismo fondamentalista non è poi così sensibile agli argomenti legati al design piuttosto che alla guidabilità, preferendo valutare le auto in base al loro significato storico. Come conseguenza, le 911 prodotte prima dell’allungamento oggi sono decisamente meglio quotate. Per le S della prima ora, costruite in 1790 esemplari tra l’estate del 1966 e la fine del 1968, si parla di 150/160 mila euro nel caso di esemplari in ottime condizioni, che possono arrivare a 180 mila quando si tratta di auto meritevoli di essere esibite con orgoglio in un concorso. Per contro “bastano” 130/140 mila euro per mettersi in garage una versione immediatamente successiva, caratterizzata non solo dal passo allungato ma anche dall’alimentazione con iniezione meccanica Bosch anziché con i due carburatori invertiti a triplo corpo Weber.
Va da sé che guidare una 911 “corta”, sebbene richieda una dose massiccia di cautela, anche in virtù dei pneumatici stretti (165/15) e uguali per avantreno e retrotreno, è un’esperienza emozionante. Da vivere e da raccontare.
Nonostante il peso trascurabile che preme le ruote anteriori sulla strada, lo sterzo è molto reattivo e, a causa del passo corto, basta un piccolo movimento del volante (smisurato) perché il muso si prodighi subito per assecondare i desideri di chi guida. Il problema, però, nasce immediatamente dopo, quando è la coda a tentare di prendere il comando delle operazioni. E se le si lascia troppa libertà il gioco diventa crudele: di mollare il gas non se ne parla neanche, a meno di non volersi ritrovare su una giostra impazzita, quindi bisogna diventare empatici con lo sterzo e l’acceleratore. Ed è anche buona norma recitare mentalmente una preghiera per uscire indenni dalla curva. Che non guasta mai.
Grazie anche ai rapporti corti il “boxerino” di due litri spinge come un demonio e può salire fino a 7200 giri, poi si entra in una zona rossa che è preferibile non esplorare. Ce n’è a tutti i regimi, comunque, e anche se il godimento arriva in alto, pure con un filo di gas si viaggia benissimo in quarta e quinta. Una prova su tutte? Il cambio è rovesciato, con la prima in basso, quindi basta un attimo di disattenzione per trovarsi a partire in seconda. Ma ci si avvia lo stesso senza neanche bisogno di cimentarsi in strane acrobazie con la frizione. Niente male per la versione cattiva, di un’auto cattiva, di quasi 60 anni fa. E il rumore, metallico e tagliente, è quello del boxer della vecchia scuola, nella sua forma più smagliante. Il sei cilindri è rumoroso sempre e quando ci si dà dentro con l’acceleratore lo diventa ancora di più, ma lo si potrebbe ascoltare tutto il giorno senza stancarsi.
Il proprietario attuale della “nostra” 911 S, in veste Polo Red e immatricolata nel 1968 (quindi pochi mesi prima dell’elongazione del passo) se l’è goduta eccome. Lo testimoniano gli adesivi sui finestrini posteriori che attestano le avventure intraprese. C’è anche lo sticker celebrativo del Goodwood Revival, raggiunto in una sola giornata di viaggio, dalla mattina alla sera, con partenza da San Giorgio su Legnano, in provincia di Milano. E non stiamo parlando di un’era geologica fa, nella quale un pellegrinaggio del genere poteva essere considerato plausibile, ma del 2015, quando l’auto era già da considerarsi legittimamente “anziana” e teoricamente inadatta a una tirata di 1300 km in soluzione unica. La 911 S riporta 77 mila km, ma lo strumento può segnare solo cinque cifre e il proprietario, che se l’è portata a casa 10 anni fa e l’ha accudita con tutti i crismi, ammette con un sorriso un tantino misterioso che potrebbero essere 177 mila, o forse 277 mila. Magari 377 mila. Volete parlare di affidabilità? Accomodatevi pure.
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