Testo di Marco Visani
Domanda di quelle all’apparenza banali, ma dalla risposta per niente semplice: a partire da quanti cilindri un motore si ritiene plurifrazionato? Non esiste una definizione univoca o codificata anche se, preso per quattro il numero più diffuso dei cilindri nella storia dell’automobile, si tendono a considerare plurifrazionati tutti quelli che ne hanno dai cinque in su.
Per quale ragione propulsori con tre – o due soli – cilindri non siano mai stati definiti sotto- (o ipo-) frazionati è un tema misterioso che però riguarda più la linguistica che la tecnica propriamente intesa. Più interessante è capire le ragioni per cui un motore endotermico abbia sempre avuto questa varietà di ripartizioni del suo volume interno.
Quando la cilindrata unitaria (cioè quella totale divisa per il numero dei cilindri) è bassa – tendenzialmente, quando i cilindri sono tanti – i pistoni e le bielle sono piccoli e leggeri, dunque lavorano bene anche a regimi elevati senza eccessive sollecitazioni meccaniche e sono più facili da raffreddare.
Camere di combustione compatte determinano un rapporto di compressione elevato e una combustione più efficiente. Ma non è tutto oro quel che luccica. Maggiore è il numero dei pistoni, superiori sono l’ingombro e il peso del motore. In più si moltiplicano gli attriti di strisciamento fra pistone e cilindro, che causano un peggioramento del rendimento nonostante la potenza pura più elevata. Il tema insomma è complesso e affascinante, come gran parte delle cose complicate, ed è intorno a queste considerazioni di base, che grondano matematica, fisica e ingegneria, che nel corso dei decenni si sono sviluppate tendenze tecniche destinate a lasciare il segno.
Fino agli anni 20 l’impiego di plurifrazionati era poco diffuso, diventando solo successivamente la regola per i marchi che avevano una destinazione sportiva o un censo elevato. Dal 1927, con le due serie 6C e 8C, l’Alfa Romeo non produsse, sino all’avvento della 1900 del 1950, altro che sei e otto cilindri, tutti rigorosamente in linea. La Volvo, che pure aveva debuttato nel 1927 con una “quattro”, dal 1929 si concentrò a sua volta sui sei in linea e fino al 1944 produsse solo motori di questo genere.
Il “sei” calamitava consensi anche in altre aree di mercato. La Fiat, che già non si era fatta mancare dei plurifrazionati in precedenza, ricorse nel 1935 a un piccolo sei cilindri sulla 1500 dalla linea streamline. Non fu un caso isolato (oltremanica molti costruttori amavano suddividere per sei anche cilindrate relativamente modeste), ma rappresentò un ingegnoso esempio di quella che in tempi assai più recenti avremmo imparato a riconoscere come modularità. Era lo stesso motore 108 della 508 Balilla, con identiche misure di alesaggio e corsa, giusto con due cilindri in più.
La stessa operazione che, nell’autunno 1968, trasformò il quattro cilindri B20 tutto in ghisa della Volvo 144 nel sei cilindri B30 della 164. Il pur piccolo sei cilindri costruito dalla Fiat negli anni 30 non rappresentò tuttavia un record. In questo senso il caso più clamoroso, pur riferito a un’auto da corsa non costruita in serie, è quello della Minardi (sì, quella della Formula 1) che nel 1948, quando era ancora soltanto una concessionaria Fiat, allestì, su un telaio di derivazione Topolino, un sei cilindri in linea di 745 cm³.
Talmente ingombrante che per essere contenuto nella sagoma della vetturetta fu necessario inclinarlo vistosamente sulla destra. Ovviamente lo scopo di questa arditissima trasformazione era quello di sfruttare gli alti regimi resi possibili da questa architettura (i 55 cv uscivano a 7000 giri). E la perdita di elasticità ai bassi e medi regimi, che è il rovescio della medaglia dei plurifrazionati di piccola cubatura, non era evidentemente un problema per un veicolo destinato ai campi di gara.
Con lo sviluppo di motori a sei, otto e 12 cilindri nel dopoguerra diventò quasi indispensabile (e fu la regola dagli otto in su) disporre i cilindri su due bancate, per limitare l’ingombro longitudinale e abbassare il centro di gravità. Chi non credeva nel motore a V fu costretto ad allungare passo e carrozzeria delle sue vetture per permettere, a una scocca pensata per un quattro cilindri, di alloggiare anche un sei in linea.
Accadde, tanto per fare un esempio, alle Mercedes della serie Ponton. Se abbiamo visto anche rari bicilindrici e alcuni quattro cilindri con i cilindri a V, in quel caso fu – se non per un vezzo – per un indirizzo tecnico al limite dello snobismo (non a caso, il V4 fu per decenni il motore di punta delle Lancia). Nel caso di un motore a sei cilindri a V, la maggiore compattezza è stata spesso preferita alla regolarità del sei in linea mentre, dal dopoguerra in poi, gli otto in linea si sono sostanzialmente estinti.
In questa girandola di pistoni, bielle e valvole una curiosa eccezione è rappresentata dai cinque cilindri. Furono introdotti dall’Audi quattro nel 1980, poi seguita da Volvo e Lancia e interpretati con particolare originalità dalla Volkswagen con il VR5, un V talmente stretto da assomigliare a un motore “reihe”, cioè in linea (da cui la R della sigla). Se il cinque cilindri è l’unico caso di plurifrazionato dispari – il che ha sempre presentato il conto di una certa ruvidità di erogazione – il VR5 è stato l’unico V con bancate disuguali.
Saltato il V14 (usato unicamente in alcune applicazioni avali), nell’olimpo dei plurifrazionati sono entrati solo in epoche recenti il V10 (Lamborghini, poi “prestato” ad alcune Audi, VW e Bmw, solo per citare alcuni casi). Mentre è stato recuperato da un passato lontano, che si perde nella omonima Cadillac del 1930, il V16. Prima sulla effimera Cizeta Moroder del 1991 (che in realtà collegava due V8), poi sulle Bugatti, che prima di rinascere in forma definitiva a inizio millennio avevano addirittura tentato la strada del W18 (tre bancate da sei cilindri).
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