Progettata per essere una utilitaria super economica in tempi di crisi petrolifera, la Mini, grazie alle sue doti innovative e alla forte personalità, diventa subito qualcosa di più. Apprezzata da una clientela anche facoltosa, e magari un po’ snob, la vetturetta nata nel 1959 dalle idee di Alec Issigonis viene via via interpretata con gli accenti più svariati. Fino a diventare una sportiva vincente, con le derivate Cooper, o l’oggetto ideale per gli interventi di stilisti e carrozzieri che ne elaborano infinite varianti in edizioni limitate, senza escludere quelle più stravaganti e di lusso.
Nel 1961 è la stessa British Motor Corporation a mettere in campo due versioni “fuoriserie di serie” e particolarmente raffinate della Mini, utilizzando marchi prestigiosi e identitari della sua vasta costellazione di prodotti. Entrano così nel listino del gruppo la Riley Elf e la Wolseley Hornet, con modifiche non di poco conto in fatto soprattutto di estetica e allestimenti.
Tre volumi
A distinguere, rispetto ai modelli normali, è in primo luogo l’aggiunta di un terzo volume alla carrozzeria con tanto di pinne, che rompe l’equilibrio del design in modo non proprio convincente, ma certo accresce il “censo” dell’auto e permette di offrire maggiore spazio per i bagagli. A dare ulteriore carattere, l’utilizzo sul frontale delle classiche mascherine-radiatore dei marchi, decisamente “importanti”, e se vogliamo troppo pretenziose in rapporto a dimensioni esterne che comunque si mantengono entro i 3,31 metri di lunghezza.
All’interno, d’altra parte, i riferimenti guardano addirittura a Jaguar e Rolls-Royce, con ampio uso di materiali di pregio, dalla radica per la plancia, alla pelle e alla moquette per i rivestimenti, non dimenticando una strumentazione ricca e una generale attenzione alle finiture e ai dettagli. Restano invece i semplici cristalli laterali anteriori ad apertura scorrevole (posteriori a compasso), la posizione molto orizzontale del volante e la lunga asta al pavimento del cambio, caratteristiche delle Mini d’origine. Limitate le differenze tra il “Folletto” e il “Calabrone”, se non nell’affezione della clientela ai rispettivi marchi.
Peso notevole
Nessuna sorpresa per quanto riguarda la meccanica. Qui si va a risparmio. Lo schema è quello, all’avanguardia all’epoca nella categoria, a trazione anteriore e motore disposto trasversalmente: è però il ben noto quattro cilindri 850 da 37 cavalli dell’utilitaria di base. Quattro le marce e prima non sincronizzata, mentre le sospensioni sono le poco confortevoli con tamponi in gomma, lo sterzo a cremagliera e i freni a tamburo. Modeste le prestazioni, che risentono dell’aumento del peso di una ottantina di chili: circa 110 chilometri orari di velocità massima. Maneggevolezza e tenuta di strada si confermano qualità evidenti anche su queste derivate.
Con il passare degli anni, le vetture seguono l’evoluzione e i miglioramenti della famiglia: vetri finalmente discendenti, leva del cambio corta e diritta, sospensioni Hydrolastic e motore 1.000 da 41 cavalli, anche con cambio automatico, per 125 chilometri orari.
La produzione cessa nel 1969, a quota 30.200 Elf e 28.400 Hornet, un risultato tutto sommato discreto, considerando il ruolo di nicchia a fronte dei due milioni di unità complessive della Mini nel decennio. Pochissime arrivano in Italia, gravate da prezzi elitari praticamente fuori mercato: 1.350mila lire per entrambe, al livello di una berlina 1100 di tono superiore come la Lancia Fulvia, e ben 200mila lire in più di una Fiat 1300.