Sono nati a pochi anni di distanza, producono testi che tutto il mondo adora e spesso usano le automobili per riempire di significati i loro scritti. Auto che fanno sognare, incutono paura o commuovono, molto più che semplici mezzi di locomozione. Loro sono Stephen Edwin King (21 settembre 1947, di Portland nel Maine) 500 milioni di copie vendute dei suoi oltre 80 libri e Bruce Frederick Joseph Springsteen (23 settembre 1949 Long Branch, New Jersey), 120 milioni di dischi, un premo Oscar e 20 Grammy.
Due giganti della letteratura e della poesia contemporanea che hanno saputo gettare lo sguardo sul bello – e sul brutto – della società degli ultimi 40 anni (entrambi hanno iniziato a farsi conoscere intorno all’inizio degli anni ’70) e a cui è riconosciuta la straordinaria capacità di esprimere concetti elevati anche attraverso l’uso di semplici strumenti del quotidiano. Fra questi non mancano le automobili – a volte mostri da cui stare alla larga, altre unico passaporto verso la libertà e un nuovo inizio - a cui i due hanno dedicato appassionate storie conosciute e amate in tutto il mondo. Celebriamo – attraverso l’analisi di un libro e di un disco – il compleanno di questi due straordinari artisti.
Christine, la dimenticata
Così famosa da diventare proverbiale. Così cattiva da far venire gli incubi. Bellissima e autonoma. Nel senso che va per conto proprio, decide lei quando muoversi e dove andare (di solito contro qualcuno) e anche che musica trasmettere dalla autoradio. E’ Christine, l’automobile più celebre della letteratura contemporanea, protagonista dell’omonimo ottavo romanzo di King uscito nel 1983 che porta il suo stesso nome. Una Plymouth Fury del 1958 (“un’auto dimenticata” la chiamò lo scrittore spiegando perché avesse scelto quel preciso modello) dotata di una propria anima non proprio gentile, se non con il proprietario – Arnie Cunningham – col quale intreccia una relazione che non si può che definire amorosa, per quanto in un senso estremamente lato. Christine, rossa lucente e cromata, interni di pelle chiara, è il simbolo – come scrisse il critico Philippe Van Rjndt sul New York Times - “del rapporto ineluttabile tra i teenager americani e l’automobile”. Un rapporto che oggi, curiosamente, sembra in crisi, a dar retta a tutti quegli studi che parlano di una crescente disaffezione, soprattutto delle giovani generazioni, verso le quattro ruote.
Parla la lingua del rock
Christine, invece, ama ed è riamata dal suo proprietario, in cerca di una rivalsa sociale e personale in una società che giudica, allontana, ghettizza. L’auto - indiscutibilmente un simbolo dell’età dell’oro di Detroit, la capitale dell’industria americana a quattro ruote – ha una “voce” che è quella del rock & roll. Mentre si rigenera da sola, moderna fenice, e attraversa la tranquilla provincia americana come strumento della vendette di Arnie contro i suoi bulli, Christine “parla” attraverso le canzoni di Janis Joplin, Chuck Berry, i Beach Boys. E di un certo Mr Springsteen di cui torneremo a parlare tra poco. In barba ai tentativi di fermarla, è inarrestabile, risorge perennemente dalle ceneri, proprio come l’automobile, data tante volte per finita, che ha saputo invece rinascere ed è ancora oggi strumento indispensabile della vita e della società contemporanea.
Il romanzo – come il film che ne è stato tratto lo stesso anno dal regista John Carpenter – non si limita a raccontare la storia della “auto dimenticata”, ma presenta una carrellata sulla produzione di quattro ruote americana e non solo. Se la mamma di Arnie, il protagonista, guida una “semplice” Volvo 144, non mancano altri pezzi fantastici, come le Chevrolet Bel Air, Camaro, Impala Convertible e Chevelle Malibù, una Pontiac Firebird Trans Am, una Le Mans e anche una Gmc C-series oltre a una Porsche 356 B coupè, una Chrysler Newport e un camion Dodge c 90. Tutte in fila a rendere omaggio a Christine.
Auto e libertà
Bruce Springsteen canta canzoni che tutto il mondo conosce e nelle quali chiunque - a prescindere dalla propria storia personale o dal luogo dove vive - si può riconoscere. I suoi temi sono quelli fondanti della vita di ciascuno di noi: speranze per il futuro, amore, voglia di essere liberi, lotta contro le ingiustizie, perseveranza nel trovare, come recita un verso di una delle sue ballate più sentite, “ogni giorno una ragione per crederci”. Spesso accanto ai protagonisti delle canzoni del Boss ci sono delle automobili. Che non sono mai solo uno strumento per muoversi ma spesso diventano la ragione stessa per cui si è in strada, un fine e non un mezzo. L’album in cui forse più che in ogni altro l’auto è protagonista è il quinto della carriera del rocker del New Jersey, il primo doppio: “The River”, uscito il 10 ottobre 1980, disco di platino negli Usa con oltre 5 milioni di copie vendute.
Tra dolore e speranza
Nello svolgimento dell’album le auto acquistano significati diversi. Una delle canzoni più sentite dell’intera raccolta si intitola “Stolen Car”. Qui l’io narrante è quello di un uomo che guida un’auto rubata – simbolo del fallimento della sua vita, anche amorosa visto che la sua compagna si sente “vecchia di cento anni” – e si aspetta, quasi desiderandolo di essere fermato dalla polizia da un momento all’altro. “Ogni notte aspetto di essere beccato, ma non succede mai”. Il viaggio notturno a bordo di una vettura non sua è metafora qui di un’esistenza che non ha più speranza: “Guido di notte e viaggio nella paura che in questa oscurità scomparirò”.
Di tutt’altro tenore il viaggio – anche questo notturno – del protagonista di “Drive All Night”. Un viaggio animato dalla speranza di tornare dalla persona che ama: “Guiderò tutta la notte, lo giuro, solo per comprarti delle scarpe nuove e gustare i tuoi dolci tranelli e dormire stanotte di nuovo tra le tue braccia”. Qui l’auto diventa uno strumento di libertà, il mezzo per tornare a vivere la parte migliore della propria esistenza.
Come “l’auto di mio fratello” citata nella title track “The River”, a bordo della quale i due protagonisti andavano a ritagliarsi un momento di serenità e libertà “di notte vicino al serbatoio dell’acqua”. Qui, però, il tempo della canzone è declinato al passato. E l’auto è anche nostalgia di un periodo spensierato e felice che difficilmente tornerà.
Grande metafora
Un’altra canzone, un’altra esperienza. “Cadillac Ranch”. Il riferimento è chiaramente alla scultura di Amarillo, Texas, nella quale dieci Cadillac sono piantate nel terreno e ricoperte di graffiti. Nel testo – definito dal critico Dave Marsh “uno dei più intelligenti riguardo l’ineluttabilità della morte” – Springsteen sovrappone la moderna scultura a un luogo di riposo eterno e si fa accompagnare da grandi personaggi, James Dean, Burt Reynolds, il pilota automobilistico Junior Johnson, ognuno a bordo di una Cadillac, in quello che pare sia proprio l’ultimo viaggio.