Ultimo aggiornamento  06 giugno 2023 14:11

Monza2018. Il mondiale del Drake.

Leo Turrini ·

1953/1963. Per capire davvero cosa Monza, con il "suo" Gran Premio di Formula 1, abbia rappresentato per l’Italia intera, nel contesto di una ricostruzione post bellica che sembrava impresa temeraria se non addirittura impossibile,  occorre uno sforzo in più. La Seconda Guerra Mondiale era stata una catastrofe materiale. Le disfatte al fronte avevano anche sbriciolato le puerili certezze falsamente propagandate dal regime fascista. Con buona pace di Mussolini e dei suoi proclami, avevamo ampiamente dimostrato di non essere in grado di produrre carri armati o cannoni.  Macchine di morte. Ed esisteva, invece, un’altra idea di “macchina”. Esisteva e gli italiani tutti, non solo gli abitanti di Monza, ne erano perfettamente al corrente. Perché c’era sempre stata una Italia che amava il concetto della competizione, una Italia rurale e contadina nelle origini ma che, con il progredire del Novecento, aveva imparato ad amare il motore, la biella, il pistone.

Monza è sempre stata la capitale di un Paese diverso, distinto e distante dalle oscene prevaricazioni di regime. Tornava la voglia di vivere. Anche a tutta velocità. E questa diversità la colsero subito gli appassionati che il 3 settembre 1950 affollarono il circuito per un Gran Premio destinato a passare alla storia.

Non fu e non poteva essere una gara come tutte le altre. Non soltanto perché Nino Farina, al volante di una Alfa Romeo 159, si laureò matematicamente campione del mondo della neonata categoria. Il valore subliminale della competizione era soprattutto racchiuso nel drappello di italianissime vetture sulla griglia di partenza. Le Alfa Romeo, certamente. Ma anche le Maserati. E le prime Ferrari. Macchine. Italiane. Non da guerra.

Ferrari mondiale

Gli Anni Cinquanta hanno fatto da prologo al boom. Enzo Ferrari, un totem nella solitudine di Maranello, aveva capito. Era un profeta: tutti si accapigliavano sul significato epocale della automobile come mezzo di locomozione di massa e già lui aveva compreso che l’auto poteva essere anche opera d’arte. Il simbolo della lungimiranza del papà del Cavallino era un figlio d’arte. Alberto Ascari, detto Ciccio, erede di Antonio, che di Ferrari era stato compagno in pista nella ruggente epoca del primo Novecento.

Ascari junior tornò indietro, felice, il 16 settembre del 1951. Aveva vinto il Gran Premio d’Italia, con la Ferrari 375. Per sempre, nella storia, sarebbe stato ricordato come il primo “driver” in trionfo in Brianza al volante di una macchina del Drake. La scena ebbe a ripetersi nel 1952, la stagione durante la quale Ciccio conquistò il mondiale con la Rossa. La sua supremazia era così schiacciante che i tifosi immaginavano una lunga sequenza di successi brianzoli. E invece il sorriso smagliante del 7 settembre 1952 fu l’ultimo. Il 13 settembre 1953 la Ferrari 735 S di Ciccio venne coinvolta in un incidente durante il 79esimo giro. Partito dalla pole, Alberto si era già confermato iridato. Ma a Monza gli toccò applaudire l’impresa dell’eterno Fangio, al volante di una Maserati.

Il duello senza fine

Nel 1954, Ascari era ancora ferrarista a Monza: in realtà era già passato alla Lancia, la scuderia torinese però gli accordò il permesso di disputare il Gran Premio d’Italia con una vettura del Cavallino. Ascari era convinto di poter rendere la vita dura all’argentino. Fangio era ormai un uomo Mercedes e nelle prove aveva ottenuto il miglior tempo. Ma Ciccio, con la Rossa modello 625, era secondo in griglia. Quel 5 settembre del 1954, il motore della Ferrari gli giocò un brutto tiro. Rimase a piedi dopo 48 giri e rese ancora omaggio alla grandezza del Gaucho. Ci rivedremo qui nel parco della Brianza tra un anno, disse Ascari a Fangio nel dopo gara. Non poteva immaginare che invece il destino non gli avrebbe più offerto l’occasione di una rivincita.

Il 26 maggio 1955, Ascari ricevette una telefonata da due amici. A Monza, Gigi Villoresi ed Eugenio Castellotti stavano collaudando la Ferrari 750 Sport. I colleghi lo invitarono a pranzo in circuito. Ciccio li raggiunse ma quando vide la macchina fu aggredito dal consueto virus della passione. Fatemela guidare per dieci minuti, disse. E poi andiamo a mangiare. A tavola, Ascari non arrivò. Per ragioni mai chiarite, perse il controllo della macchina e morì sul colpo sul circuito che apprezzava di più. Anche Alberto, come papà Antonio, era stato ucciso dall’amore per la velocità.

Di sicuro, senza Ascari il Gran Premio d’Italia si accorse di essere più povero. L’11 settembre 1955, vincendo a Monza con la Mercedes, il grande Fangio dichiarò: “Gioisco sempre quando taglio il traguardo per primo, ma non vedere il nome di Ciccio tra i partenti è una ferita che non si rimarginerà”. Nemmeno l’argentino avrebbe più provato la gioia di salire sul gradino più alto del podio nel Gp d’Italia. Ormai a Monza era scoccata l’ora di Stirling Moss. Il pilota più grande di sempre, secondo la definizione che ne ebbe a dare il Drake di Maranello. E però mai iridato.

Tabù infranto

Gli anni passavano e Monza ormai era, con il suo Gran Premio, un piccolo grande pezzo della storia, in costante evoluzione, dell’Italia. La corsa della Formula 1 era entrata a far parte dell’immaginario collettivo di un popolo. In questa consacrazione, un po’ stonava l’assenza del nome Ferrari nell’albo d’oro della gara. Dopo i successi del compianto Ciccio Ascari, solo piazzamenti. E a Maranello il Grande Vecchio friggeva, perché in un personaggio ammantato di orgoglio patriottico come lui la sconfitta a Monza assumeva il sapore di una disfatta.

Le cose non andarono bene nel 1958, quando ad imporsi fu Tony Brooks ancora con la Vanwall. Il digiuno continuò nel 1959, quando l’indomabile Moss si prese il gradino più alto del podio con la Cooper. Enzo Ferrari mugugnava. Il tabù venne infranto il 4 settembre del 1960. Tripletta della Rossa davanti ad un pubblico in delirio. L’americano Phil Hill scattò dalla pole e firmò il giro più veloce in gara, potendo festeggiare la fine di un incubo in compagnia dei compagni di squadra Richie Ginther e Willy Mairesse. Hill si sarebbe ripetuto il 10 settembre 1961, ma la sua prodezza purtroppo non sarebbe stata ricordata. Infatti quel giorno andò in scena una di quelle vicende che proprio Enzo Ferrari prosaicamente definì “le mie gioie terribili”.

Destino crudele

Nel 1961, nella classifica del mondiale lo statunitense Hill inseguiva, staccato di quattro punti, il compagno di squadra Wolfgang Von Trips. Tedesco, legatissimo al mito del Cavallino, Von Trips era considerato il favorito naturale. Ma il destino, crudele, aveva in serbo altro. Durante il secondo giro, la Ferrari di Von Trips urtò la Lotus di Jim Clark nella zona che portava alla curva parabolica. La macchina di Von Trips prese il volo, si schiantò contro le reti di protezione, infine precipitò di nuovo sull’asfalto. Niente da fare per il pilota e tragico il bilancio tra gli spettatori: si contarono 14 vittime e dozzine di feriti.

Venne poi l’era dei Lord di Sua Maestà Britannica. Graham Hill ha segnato un’epoca, capace di imporsi alla 500 Miglia di Indianapolis come a Montecarlo, dove trionfò 5 volte e si mormorava avesse fatto girare la testa a Grace Kelly. Un talento purissimo. Se possibile, Jim Clark era persino più bravo. Chi lo ha visto dal vivo, non esita a definirlo il miglior driver di sempre. Dello scozzese, i contemporanei giurano che aveva lo stesso carisma di Ayrton Senna. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia.

* Articolo pubblicato sul numero zero de l'Automobile - settembre 2016

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