NEW YORK - È curioso notare come la cessione della Opel e il quasi totale abbandono della piazza europea per la General Motors coincida con l’avvento della politica economica nazionalista e protezionista di Donald Trump. Mentre al Salone di Ginevra la discussione è appena iniziata, la stampa americana titola sulla fine della vocazione globalista per il Generale, unico tra le "Grandi Cinque" case del mondo a non avere più una presenza in Europa. In realtà la Gm una vocazione globalista non l’ha mai davvero avuta.
Un feeling con l'Europa mai nato
È arrivata in Cina con buon tempismo perché aveva in listino le grandi berline e i suv adatti al mercato crescente di quel paese, e ha esportato con alterni successi le stesse vetture in Sud America e in Australia. Ma delle piattaforme elaborate dalla Opel per l’Europa non ha mai saputo bene che farsene, e non è mai riuscita ad inserirle in un regime di sinergia globale. Puntuale ad ogni crisi ciclica degli affari, la questione dell’opportunità di mantenere i rapporti con la casa tedesca è sempre tornata a galla negli ultimi 40 anni, così come i dissapori tra gli ingegneri sulle due sponde dell’Atlantico, e le lamentele di ritorno dalla Germania per gli scarsi investimenti della casa madre.
L'inutile corsa alla leadership mondiale
È anche la fine della rincorsa al primato delle vendite che la Gm negli anni ’90 ha combattuto testa a testa contro la Toyota, e che l’ha portata ad allargare i suoi confini oltre i limiti della razionalità e del pareggio dei conti. Altre partecipazioni al 20% erano tutte cadute prima ancora della crisi e della bancarotta, a cominciare dalla Fiat (2005); l’Isuzu e la Subaru (2006), e la Subaru (2008). Opel era rimasto forse il fardello più gravoso, come si vede oggi dal debito di 4 miliardi di dollari che Mary Barra è costretta a inserire a bilancio per i fondi pensione. C’è voluta una Gm risanata per rimettere in sesto anche la contabilità della Opel, e poi avviarla al banco della vendita.
La Borsa festeggia, la liquidità anche
Wall Street ha gradito la decisione fin dal primo giorno in cui è stata ventilata, e nelle ultime tre settimane il titolo Gm ha guadagnato il 9% di valore. Gli analisti lodano la conversione di Barra da una politica della crescita a tutti i costi ad una mentalità più mirata sui margini di profitto, così come ha insegnato a fare la Toyota, e così come sanno fare Ford e Honda. Infine la transazione ha liberato due miliardi di contante, che l’azienda userà per riacquistare parte delle azioni cedute per finanziare il rilancio della New Company, e dare nuovi segnali di fiducia ai suoi investitori. No, nessuno si è lamentato della cessione negli Usa. La Gm riparte da oggi più snella e più concentrata sui suoi affari americani, e anche un po’ più preparata se mai ce ne sarà bisogno, ad affrontare il regime di tariffe di importazione ventilato da Donald Trump.