Ultimo aggiornamento  23 marzo 2023 11:43

La guida troppo autonoma di Uber.

Flavio Pompetti ·

New York - Alla fine Uber ha piegato la testa. Di fronte alla fermezza della motorizzazione californiana, ha ritirato dalle strade di San Francisco la flotta di Volvo XC90 in assetto di guida automatica che stava facendo circolare per accumulare esperienza e presenza su una delle piazze più prestigiose e visibili del mondo. Uber aveva avviato il test senza richiedere un permesso, dicendo che le sue Volvo hanno un pilota seduto sul sedile di guida, pronto a intervenire in emergenza. Il dipartimento ha ribattuto che il permesso non riguarda la presenza o meno dell’uomo, ma la circolazione di una vettura con l’autopilota. Uber, a una settimana dall’avvio, ha chiuso il programma.                                                        

Tutto qui? La sfida tra la iconoclasta Uber e lo stato della California si sarebbe consumata quindi per il rifiuto della società miliardaria di dotarsi di un permesso da 150 dollari che Tesla e Mercedes Benz hanno accettato di richiedere? Naturalmente in ballo c’era dell’altro, e basta scavare appena sotto la superficie della notizia per scoprirlo.

Una cauzione da 5 milioni

Per ottenere il permesso Uber avrebbe dovuto depositare una cauzione di 5 milioni di dollari o equivalenti garanzie assicurative, per garantire lo stato della California contro eventuali danni. Anche questa cifra è irrisoria, ma la sua sottoscrizione comporta un riconoscimento della responsabilità da parte della casa, e questo è il vero punto della contesa.

Nelle pratiche dei sinistri stradali del ride hailing, Uber rifiuta ogni addebito: la responsabilità è a carico dei suoi “collaboratori esterni” che guidano le automobili e che sono protetti dai contratti individuali di assicurazione. I permessi per le prove di guida autonoma non sono invece rilasciati agli individui. Per ottenerne uno, Uber avrebbe dovuto dichiarare la proprietà della flotta, e quindi il rapporto di impiego che la lega agli autisti. E’ questo l’attrito che ha rotto la corda, e ancora una volta ha segnato la riluttanza di Uber ad accettare quanto sembra evidente a molti: la ex startup che oggi vale 67 miliardi di dollari è anche uno dei maggiori datori di lavoro negli Usa con circa 400.000 dipendenti, una manciata meno di McDonald.

Storia da gig economy

Ad allargare l’obiettivo si vede poi che Uber è parte della crescente gig economy (noi italiani che l’abbiamo inventata la chiamiamo: precariato) che oggi interessa il 40% dei lavoratori americani, i quali soffrono delle stesse piaghe (instabilità delle paghe, abolizione delle previdenze e di ogni ammortizzatore) che affliggono i nostri lavoratori, a dispetto del titolo nobiliare di “imprenditori indipendenti” che il moderno mercato del lavoro ha loro assegnato.

"Burocrazia asfissiante"

Ecco allora che questa licenzina da 150 dollari con la quale Uber ha voluto sfidare una “burocrazia asfissiante, che rallenta e paralizza il progresso”  come hanno spiegato i portavoce dell’azienda, diventa la chiave di lettura di una nuova economia di stampo ottocentesco, nella quale un manipolo di “robber barons”, detentori delle nuove tecnologie del 21mo secolo, stanno accumulando tutta la ricchezza, mentre alla base della piramide un esercito di “imprenditori indipendenti” fatica a trovare una rappresentanza, e a reclamare una fetta della torta.

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