Ultimo aggiornamento  20 marzo 2023 11:44

Auguri, Boss: 67 anni "on the road".

Giuseppe Cesaro ·

“Non sapete niente di me, se non avete letto un libro che si chiama ‘Le avventure di Tom Sawyer’, ma non importa”. È l’incipit – bellissimo e pressoché intraducibile – di uno dei grandi capolavori della letteratura americana: “Le avventure di Huckleberry Finn”, scritto da Mark Twain nel 1884. Incipit che calza a pennello anche all’universo rock. Nemmeno di lui, infatti, sappiamo nulla (o quasi), se non conosciamo Bruce Springsteen. Impossibile spiegare in poche righe perché il ragazzo di Freehold, New Jersey – che il 23 ottobre ha festeggiato 67 primavere (cosa che, con un cognome come il suo, non può certo sorprendere) – sia così importante. Basti sapere che i songwriter (chitarra e voce) che sono riusciti a dire così tanto e così bene a così tante generazioni si contano sulla punta delle dita di una mano. Mano della quale il “Boss” non rappresenta certo il “little finger”.

Auto e strade metafore della vita

Cosa unisce una testata come “l’Automobile” a un artista come lui? Presto detto: l’auto. Niente di nuovo, si obietterà: il binomio rock-auto è uno dei più consolidati e rappresentativi della "cultura giovane". Vero. E ciò vale ancora di più per Springsteen. Le auto, infatti, non sono solo uno degli elementi fondanti la sua poetica, ma incarnano anche una delle metafore più ricorrenti ed efficaci nell’illustrare il rapporto - mai indolore - tra esseri umani ed esistenza. Non c’è tema che non possa essere raccontato da una macchina o attraverso una macchina: identità, amicizia, rapporti di coppia (amore e sesso non fanno, ovviamente, eccezione), relazioni sociali e professionali, e ogni sorta di nodo esistenziale. E, naturalmente, solitudine, sogni, rivalsa, rabbia, lotta e sconfitta, di un’America schiacciata tra il grande sogno che la ispira e l’impossibilità, per i più, di realizzarlo.

Fuori dalle secche del presente

E mentre sulle (bellissime) auto che Elvis adorava collezionare e guidare, viaggiava praticamente solo lui, sulle auto del Boss – nuove, usate, truccate o distrutte - viaggiamo tutti. Sono loro, infatti, che ci spingono a forzare il posto di blocco delle convenzioni, per esplorare l’orizzonte e trascinare un miglio più in là la linea di confine che segna la nuova frontiera. Impossibile citare tutte le canzoni che vedono protagoniste le quattro ruote. La lista tende davvero all’infinito. Ma vale la pena ricordare alcuni capolavori particolarmente luminosi, che formano una delle costellazioni alle quali il Boss ci invita a orientare il sestante della coscienza, per tracciare la rotta che può aiutarci a uscire dalle secche del presente.

La "strada del tuono"

Tra le stelle più luminose c’è, indiscutibilmente, “Thunder Road" (1975), tratta da quell’album-capolavoro che è “Born to Run” (“Nati per correre”). La strada come speranza di riscatto.Cos'altro possiamo fare – canta il protagonista alla sua compagna - se non tirare giù il finestrino e lasciare che il vento soffi indietro i tuoi capelli. Queste due corsie ci porteranno ovunque: è l'ultima possibilità che abbiamo di avverare i nostri sogni. Salta su, il Paradiso ci attende lungo la strada; prendi la mia mano, stanotte guideremo fino alla Terra Promessa: so che è tardi, ma se corriamo possiamo farcela; siediti bene e tieniti forte: è una città piena di perdenti, e me ne sto tirando fuori per vincere”.

Nati per correre

Segue Born To Run" (1975), il brano – folgorante -  che dà il titolo all’album: “Di giorno teniamo duro lungo le strade di un effimero sogno americano; di notte sfrecciamo su macchine da suicidio in mezzo a case di signori. Questa città strappa le ossa dalla schiena, piccola. È una trappola mortale: un invito al suicidio. Dobbiamo fuggire finché siamo giovani, perché i vagabondi come noi sono nati per correre. Voglio proteggere i tuoi sogni e le tue fantasie: insieme possiamo liberarci di questa trappola. Correremo fino a cadere, piccola, non torneremo mai indietro. Camminerai con me sul filo teso, perché non sono che un viaggiatore spaventato e solo, e voglio sapere se l'amore è vero; voglio morire con te sulla strada stanotte, in un bacio senza fine”.

Auto rubata

La terza stella è quella di “Stolen Car" (“Auto rubata”) del 1980, da un altro album imperdibile: “The River”. La storia di una grande passione (“Ho incontrato una ragazza e mi sono sistemato in una casetta in periferia: ci siamo sposati e ci siamo giurati che non ci saremmo separati mai”) che si spegne, giorno dopo giorno (“lentamente i nostri cuori hanno iniziato ad allontanarsi”), logorata da una quotidianità priva di senso e arida di prospettive. “E ora guido un’auto rubata lungo Eldridge Avenue: ogni sera aspetto che mi prendano, ma non mi prendono mai. Guido un’auto rubata in questa notte nera come la pece e dico a me stesso che tutto andrà bene, ma mentre guido mi assale la paura che finirò per scomparire, ingoiato da questa oscurità.” 

Quella carcassa sulla statale

E sull’album “The River” si trova anche la quarta stella: "Wreck On The Highway" (“Carcassa sulla statale”). Il protagonista guida verso casa dopo una lunga giornata di lavoro. Corre da solo, sotto la pioggia, su un tratto deserto di una strada a due corsie della contea in cui vive, quando – a un tratto – incrocia un’auto distrutta. “C’erano sangue e vetri rotti dappertutto e non c’era nessun’altro a parte me. E mentre la pioggia cadeva fitta e fredda, ho visto un ragazzo accasciato a lato della strada. “Signore, per favore, mi aiuti!”, ha gridato. Alla fine è arrivata un’ambulanza e lo ha portato all’ospedale. Lo guardavo mentre lo portavano via e pensavo a una ragazza o una giovane moglie e a un poliziotto che bussa nel cuore della notte per dirti che il tuo amore è morto in un incidente d’auto su una statale”. Un incontro che si trasforma in una dolorosa epifania, foriera di paure inconfessabili: “A volte me ne sto seduto al buio e guardo la mia piccola che dorme. Poi salgo sul letto, l’abbraccio forte e me ne sto lì, sveglio nel cuore della notte, a ripensare a quell’auto distrutta sulla statale”.

Mai più auto usate

La quinta e ultima stella si è accesa nel 1982 sull’album “Nebraska”: è “Used Cars” (“Auto usate”). L’auto, qui, è linea di confine: al di qua, la depressione senza fondo di una working class senza futuro; al di là, la liberazione dalla schiavitù (“Mio padre si suda lo stesso lavoro mattina dopo mattina e io rientro a casa per le stesse sporche strade nelle quali sono nato”) e forse – chissà – un principio di riscatto. “La mia sorellina è sul sedile davanti con un cono di gelato in mano, mia madre giocherella con la fede e guarda il venditore che fissa le mani del mio vecchio: ci parla dello sconto che ci farebbe se potesse, ma proprio può. Beh, se potessi, giuro che so cosa farei: amico, il giorno che vincerò la lotteria non guiderò mai più una macchina usata”. E, finalmente, “i vicini accorrono da ogni parte mentre arriviamo sulla nostra nuova macchina usata; vorrei che mio padre desse una bella accelerata, lanciasse un urlo e dicesse a tutti che possono baciarci il culo e arrivederci. Amico, il giorno che il mio numero uscirà non guiderò mai più una macchina usata”.

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