New York – “Negli Usa ricominciamo da zero”. Non ha giocato con le parole Herbert Diess, responsabile globale del prodotto Volkswagen, nel commentare l’andamento del marchio sulla piazza americana durante la recente conferenza stampa sulla trimestrale del gruppo.
In verità si tratta di uno zero relativo. Le vendite del marchio sono in calo del 13,1% dopo i primi cinque mesi, con una perdita dello 0,2% di quota rispetto all’anno scorso. La parte vitale del mercato non sono mai state le Golf e le Jetta, auto molto apprezzate per le prestazioni dai fedeli acquirenti delle GTI, ma considerate dalla maggioranza dei consumatori troppo ‘piccole’ per soddisfare i criteri immobiliaristi con i quali molti scelgono l’automobile da acquistare.
Audi va e fa profitti
Il "pane imburrato", come si definisce negli Usa la parte più succulenta degli affari, viene piuttosto dall’alto di gamma dei suv e dall’intero portfolio Audi, più adatto a garantire margini di profitto. E l’Audi, nonostante l’evidente contagio che subisce dallo scandalo dieselgate, continua a marciare in terreno positivo, con un aumento delle vendite tra gennaio e maggio dell’anno in corso del 4,2%, con un guadagno di un decimo di punto di quota.
Le parole di Diess indicano piuttosto un altro livello di problemi, più insidiosi e sotterranei per la sua azienda. Il gruppo sta giocando negli Usa una partita particolarmente difficile, perché è qui che regolatori e giudici hanno poteri di intervento più incisivi nei confronti di una casa automobilistica nel campo della sicurezza. Non è per un capriccio contabile che, 7 dei 18 miliardi messi via per chiudere la partita sul dieselgate, sono stati isolati per il mercato americano, una quota che non riflette affatto la porzione di affari che la Volkswagen vanta negli Usa rispetto al volume globale delle vendite.
Le scuse a Obama
L’altro segno della particolarità della crisi sono i due minuti che Matthias Mueller, il numero uno del gruppo Volkswagen, ha passato a parlare con Barack Obama nel breve incontro che i due hanno avuto ad Hanover, durante la recente visita europea del presidente americano. Mueller ha approfittato della stretta di mano per chiedere scusa ad Obama per la truffa dei diesel con le emissioni falsate da un software che ne alterava i valori in sede di omologazione e nelle successive ispezioni annuali. Questo gesto da cultura asiatica non è stato sottolineato con la dovuta attenzione dai media occidentali, i quali hanno evitato di segnalare come solo da poco tempo sia entrato nel lessico dei rapporti tra i responsabili di una casa europea o statunitense e i rispettivi governi.
Lo spartiacque
Diciamo che lo spartiacque sono state le scuse pronunciate due anni fa da Mary Barra, numero uno della General Motors, per il difetto al modulo di accensione delle GM. Si disse che la figura di una donna e di una madre che mostrava autentica preoccupazione per gli incidenti e le morti causate era una buona strategia di pr per l’azienda. Di fatto, prima di lei Jacques Nasser rifiutò di pronunciare un apologia a nome della Ford nel caso di ribaltamenti degli Explorer equipaggiati con gomme Firestone. L’amministratore pretese che fosse il collega della Firestone Masatoshi Ono schierato al suo fianco a chiedere scusa, anche quando era evidente che i tecnici delle due case avevano scelto di ignorare il problema in fase progettuale. Per non parlare poi della preistoria automobilistica, quando la GM rispose alle accuse di Ralph Nader sulla Corvair prona a ribaltarsi, facendo pedinare il giovane avvocato da un piedipiatti privato, in cerca di punti deboli sui quali attaccarlo.
Le scuse offerte da Mueller a Obama sono segno di una consapevolezza del rischio che la Volkswagen sta correndo sul mercato americano, ma anche di maturità manageriale, e di un possibile rilancio. Se non proprio da zero, almeno dalla prossima versione del Tiguan in corso d’opera a Chattanooga.